La seconda mostra che il nuovo spazio della città, Camera, dedicato alla fotografia, un’incursione nella storia della fotografia forense, un corpus di opere che coprono più di un secolo di storia, dai primi scatti entrati nelle aule di tribunale fino alle foto satellitari usate dalle organizzazioni per i diritti umani per denunciare l’uccisione di civili, come nel caso degli attacchi con i droni. Una selezione di undici casi-studio per illustrare un approccio scientifico al mezzo fotografico, volto a renderlo uno strumento nelle mani della giustizia. Una ricerca molto diversa da quella portata avanti in campo artistico, ma non per questo priva di un suo tetro fascino, nobilitato dalla solennità della Storia.
L’esposizione più marcatamente contemporanea è quella dell’artista francese Lise Sarfati, dal titolo Oh Man, curata da Francesco Zanot, composta da una serie di fotografie realizzate in California, nella downtown di Los Angeles, tra il 2012 e il 2013.
Soggetto principale del lavoro sono alcuni uomini all’interno del contesto urbano. Non compiono alcuna azione rilevante. Nella maggior parte dei casi camminano. Oppure sono colti in un momento di pausa nel mezzo di uno spostamento. Ciò nonostante la loro presenza è evidente. Carica di energia. Potente. Ovunque si trovino nel rettangolo dell’immagine, hanno un’importanza centrale. In una sorta di aggiornamento della tradizione umanista, Lise Sarfati elimina dal suo immaginario qualsiasi indicazione narrativa e tensione eroica, lasciando campo libero alla pura comparsa nello spazio di una serie di individui.
Privati del’impeto di uno scopo e senza una direzione evidente, i protagonisti di questo lavoro vagano ininterrottamente. Inconsapevoli di essere fotografati, appaiono in posizioni precarie, mentre al contrario Lise Sarfati prende saldamente posizione di fronte a loro, attendendo per giorni interi il momento più propizio per riprendere le proprie immagini. Il risultato è un silenzioso dialogo che si svolge davanti allo spettatore e regola il passaggio tra l’indifferenza della rappresentazione e la partecipazione di chi osserva.
La città è l’unico scenario di questo incontro. Occupa l’intera superficie di ogni immagine, da destra a sinistra, dal basso all’alto. Il cielo, quando compare, è ridotto a un esiguo ritaglio geometrico in mezzo ai palazzi. Blu cobalto. Tipicamente americana nella costante alternanza tra edifici di mattoni, asfalto rabberciato, reti metalliche e insegne dei negozi, la metropoli fornisce il sottofondo ritmico invariabile degli imprevedibili gesti degli uomini, sparsi qua e là come note su uno spartito musicale. Il tempo è dato dalla luce istantanea dell’Ovest americano. Cristallina e violenta nelle ore centrali della giornata, costituisce l’innesco di un teatro che, a pochi chilometri dalle stelle del firmamento hollywoodiano, si svolge ininterrottamente ogni giorno.
Lise Sarfati, nata nel 1958 in Oran, quella che fino al ’62 era l’Algeria francese, vive e lavora negli Stati Uniti dal 2003. La sua visione insiste sull’individuo come l’ambiente, una mappa che traccia il contorno di una pericolosa geografia culturale. Nei suoi scatti la ricchezza della percezione è costruita senza effetti speciali. Il suo stile tende a essere elementare e pulito, evitando ogni classificazione. Risaltano, nei soggetti, la dimensione delle posture e degli atteggiamenti come una solenne immaturità: la scena formata dalle persone e dai luoghi è il silenzioso accartocciarsi di un sogno in cui ognuno rischia la propria vita. La seduzione femminile è venata di coincidenze fatali e la bellezza degli adolescenti sembra un incantesimo. La loro solitudine ed estraneità al mondo trasforma l’immagine in una camera di echi abitata dal fotografo, dal suo soggetto e dallo spettatore.
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