Era stato un considerevole successo la mostra aperta nel maggio del 2015, “Antologia Astratta”, collezione di 25 tavole dedicate ad altrettanti poeti, da Alcmane a Zanzotto, uno per ogni lettera dell’alfabeto. Tanto che, convinto dalle molte richieste pervenute, il pittore Roberto Demarchi ha deciso di ri-allestire nuovamente un’antologica con le opere (12, meno della metà del corpus iniziale) non ancora vendute.
Merita dunque una visita nell’atelier di corso Rosselli 11 “Ut pictura poesis” titolo tratto dalla formula Oraziana costruita sul paragone tra arte e letteratura, che il pittore ha dato a questa seconda esposizione: per chi si era perso “Antologia Astratta”, certamente, ma anche per chi non aveva voluto mancare al primo appuntamento.
La poetica di Roberto Demarchi è drammatica astrazione di quadrati e rettangoli, di tecniche miste la cui matericità sfocia ripetutamente nella tridimensionalità, nella logica inesorabile dei rapporti di proporzione e della sezione aurea. Demarchi integra nella sua pittura materiali diversi quali terre crude, impasti cementizi, acrilico e olio.
«Quando l’arte visiva incontra la poesia, quasi sempre sortisce esiti di illustrazione, anzi nasce proprio con intento illustrativo e descrittivo», riflette Demarchi. «Le venticinque tavole di Antologia Astratta, e dunque le dodici di Ut pictura poesis, nascono, invece, con intento analogico. L’analogia, poeticamente intesa, può diventare strumento gnoseologico oltre che espressivo. L’accostamento immediato di due immagini, situazioni, oggetti tra di loro lontani di somiglianza, basato su libere associazioni di pensiero, consente di cogliere e di suggerire intuizioni, realtà, verità per le quali una modalità di espressione soltanto denotativa risulterebbe totalmente inadeguata».
Alcuni esempi: la fosforescente luminescenza di “Alcmane”, che ricorda quella di certe forme biologiche abissali, emerge dalle tenebre del passato come un frammento, uno dei circa cento frammenti che di questo lirico greco di 2.600 anni fa: «C’è un castigo che viene dagli dèi». Il porpora della parte inferiore del quadro cola come sangue dopo una sferzata.
I fiori gialli di “Neruda” emergono dalla terra (reale terra, intesa come materiale applicato sul quadro), brillanti come oro sotto l’azzurro carico di un cielo che un sole invisibile illumina (o è suggestione di un mare, piuttosto?).
Ancora aureo è l’altare di “Iqbal” (poeta pachistano vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900), che emerge dal rettangolo nero del “sospetto” come un Cristo pierfrancescano risorge dal sarcofago:
«Leviamo ancora una volta i veli del sospetto
uniamo ancora una volta i separati, non più divisioni
da lungo tempo è rimasta deserta la dimora del cuore
vieni, costruiamo un nuovo altare in questo paese».
Chiavi di lettura simili si possono tentare anche per le altre opere “superstiti”: tra le altre, Baudelaire, Kavafis, Pavese, Tasso.
Andrea Donna