Barbara Schiavulli, corrispondente di guerra e scrittrice, ha seguito i fronti caldi degli ultimi vent’anni, come Iraq e Afghanistan, Israele, Palestina, Pakistan, Yemen, Sudan. Invitata a Torino da Camera per “Map of Displacement” le immagini e le storie della diaspora irachena verso il Kurdistan in fuga dalla violenza dell’ISIS”, prima del convegno le abbiamo rivolto qualche domanda.
Come si comincia a fare questo mestiere, cosa bisogna sapere ?
Quando ho cominciato a fare questo mestiere era già la fine di un modo di farlo: entrando in una redazione, cominciando a collaborare. Ho fatto cronaca nera al Gazzettino di Venezia, la classica gavetta. Volevo fare l’inviata di guerra da sempre e ho perseguito questo obiettivo. Oggi per chi arriva dalle scuole di giornalismo, in un momento storico in cui nei giornali non si entra più; a meno di avere un’ottima raccomandazione o essere l’amante di qualche direttore. Quindi bisogna inventarsi altre strade se si vuole fare questo mestiere, per fare l’inviato di guerra sarebbe meglio andare a vivere altrove e provare con qualche giornale straniero. All’estero c’è stata la crisi come da noi ma con una differenza, che loro hanno scelto la qualità sulla quantità, qui abbiamo fatto esattamente l’opposto.
Lì ti pagano il pezzo bene, prima te lo vagliano in tutti i modi, e poi te lo pubblicano.
Importante è specializzarsi, io non andrei mai in Cecenia o in Ucraina, perché non ne so nulla, ci sono invece dei paesi che ho scelto, e che a loro volta mi hanno probabilmente scelto. Soprattutto l’Afghanistan che è il mio paese preferito, e dove ho incontrato un popolo incredibile nonostante le decine di anni di guerra, ospitali, generosi, magari non troppo istruiti, però il loro livello di umanità è altissimo, malgrado quello ce li circonda.
Come si verifica sul campo l’attendibilità delle fonti ?
Questa è una cosa difficilissima. Essere sul campo fa già la differenza, rispetto a star seduto in redazione o in albergo, bisogna sapere che in guerra tutti ti mentono: politici, militanti, perché si fa propaganda, e le guerre si vincono anche con la propaganda; i civili che sono le vittime principali delle guerre di oggi, tendono a raccontarti la loro storia, ciò che li riguarda e la visione che ne hanno. Si deve cercare di mettere insieme tutte le cose, verificare tutto, e avere degli stringers, giornalisti locali, traduttori, che sono fondamentali, e sono un buon riscontro. Se vado ad intervistare i talebani o gli americani bisogna sapere che non bisogna fidarsi troppo.
In questi ultimi anni i viaggi li finanzi da sola, vai da sola?
Ho sempre finanziato i miei viaggi da sola.
Com’è la vita del freelance ?
E’ difficile, il lavoro è sempre lo stesso, però competo con gli inviati assunti dai giornali.Il vero problema è che alle spalle non ho nessuno, se mi succede qualcosa non ho un giornale che mi viene a prendere, che può spingere politicamente; non è un caso che se i free se vengono rapiti vengono quasi sempre uccisi. I dipendenti in genere riescono a venirne fuori. I costi sono comunque alti. Una volta si riusciva, scrivevi 3 0 4 pezzi per i quotidiani, uno per un settimanale ed un collegamento tivù e riuscivi a pagarti tutto. Oggi non è più possibile. Mortificante è come non venga riconosciuta la professionalità di un lavoro che fai da anni, e magari si preferisca pagar meno sorvolando sulla qualità. Bisogna saper dire dei no, e ci sono giornalisti che lo fanno.
E il lavoro da tavolo, dove metti insieme i pezzi, gli elementi di una storia, in cosa si sente più la tua mano ?
Quella è la parte più bella, anche la più curativa da un certo punto di vista. Raccogli e assorbi un sacco di storie di crisi, di dolore, di emergenza, di lutto. Poi torni e ti metti a scrivere. E così le butti fuori. Devi collegarle e devi studiare. Per entrare in un paese devi conoscere i suoi poeti, la sua cultura, le tradizioni, addirittura i proverbi e possono fare la differenza, ma soprattutto devi andare privo di preconcetti, con la testa aperta.
Negli ultimi anni hai visto qualche film o documentario che ti è sembrato abbastanza fedele, onesto?
Uno che non lo è per niente è Zero Dark Thirty, del 2012 diretto da Kathryn Bigelow, racconta la fine di Bin Laden esattamente come la voleva l’amministrazione americana, e non è andata proprio così. La politica deve rispondere all’opinione pubblica e questo è un modo.
Quindi la storia la scrivono ancora i vincitori ?
Si, anche se con internet qualcosa è cambiato, si sono aperti tanti fronti, il bello è che puoi trovare tutto ed il suo contrario. Il valore del giornalista è quello di fare da filtro, da garanzia.
Il dramma è che nessuno smentisca a posteriori le notizie false. Può accadere di commettere un errore, è normale in un sistema così complesso; ma chiedere scusa al lettore è un dovere. Questo da noi non esiste.
Come vanno i tuoi libri?
Bene, meglio di quanto pensassi. Nelle scuole mi chiamano spesso vogliono sapere, ne parlano; sugli esteri c’è più curiosità di quanto si pensi, e non è così vero che nessuno legge. Bisogna sapere che una guerra non finisce quando si decide che finisca, c’è tutto il dopo: le mine anti uomo, il disagio sociale, i reduci, le conseguenze sono gravi e bisogna pensarci.
Articoli di Barbara Schiavulli sono sul Fatto Quotidiano, Repubblica, Avvenire, L’Espresso.
Ha collaborato con radio (Radio 24, Radio Rai, Radio Popolare, Radio Svizzera Italiana) e TV (Rai, Rainews 24, Sky TG24, LA7, TV Svizzera Italiana). Conduce il programma Radio Bullets.
Ha vinto numerosi premi, tra cui il Premio Lucchetta (2007), il Premio Antonio Russo (2008), il Premio Maria Grazia Cutuli (2010) e il Premio Enzo Baldoni (2014).
Ha pubblicato Le farfalle non muoiono in cielo (La Meridiana, 2005), Guerra e guerra (Garzanti, 2010) e La guerra dentro (2013).
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