La Famiglia Ceretto, il vino e l’arte: l’eccellenza dell’esperienza, e una vocazione al mecenatismo tutta internazionale.
E in autunno arriva Marina Abramovič.
La terza generazione della Famiglia Ceretto, Lisa, Roberta, Alessandro e Federico, figli di Marcello e Bruno, i Barolo Brothers, come li definì negli ‘80 la rivista Wine Spectator dandogli una consacrazione mondiale nel panorama vinicolo, condividono il colore degli occhi, di un raro verde-azzurro trasparente, e una pari visione cristallina sul futuro della loro impresa: uniti guardando al futuro, pur nella diversa gestione delle competenze tecniche, per una crescita aziendale in continuo sviluppo, anche da un punto di vista tecnico e non solo di mercato (a partire dalla vendemmia 2015 tutti i prodotti hanno ottenuto la Certificazione Biologica).
Grandi capacità nella vinificazione, attenzione alla qualità come prima regola, e altrettanto grande capacità nel comunicare non solo un prodotto quanto la filosofia che li anima. La Ceretto experience, come ben espresso dal loro sito, coinvolge più aspetti, naturalmente il vino, in primis il Barolo e il Blangè, il cibo (il tristellato Piazza Duomo con lo chef Enrico Crippa e la Piola, a cui si aggiunge il rilancio del torrone e la coltivazione della nocciola con l’azienda Relanghe) l’architettura (le avveniristiche costruzioni il Cubo della Cantina Bricco Rocche dove è stato posizionato di recente il cancello di Valerio Berruti e l’Acino per la Tenuta Monsordo Bernardina nel 2009), e infine l’arte, che negli anni ha visto nomi dell’arte contemporanea internazionale, da Anselm Kiefer, Francesco Clemente, Kiki Smith, inaugurare mostre sul territorio albese su diretta committenza della famiglia, che per loro ha costruito persino una residenza ad hoc, la Casa dell’Artista (2010), sulla collina sovrastante la Tenuta Monsordo Bernardina.
La punta di diamante rimane la cappella del Barolo alle Brunate di La Morra: costruita nel 1914 e mai consacrata, la Cappella intitolata alla SS. Madonna delle Grazie fu acquistata dalla famiglia Ceretto nel 1970 assieme a 6 ettari di vigneto circostante. Ormai rudere, si è trasformata in uno degli edifici simbolo delle Langhe grazie all’intervento di Sol LeWitt e David Tremlett (che ne hanno affrescato rispettivamente le superfici esterne e interne) nel 1999. A quasi vent’anni di distanza rimane un luogo visitatissimo e molto amato dai langaroli in primis.
La conversazione con Roberta Ceretto, responsabile comunicazione, rapporti con la stampa e marketing, sviluppo dei progetti culturali dell’azienda è un fluire brillante di energia, consapevolezza, capacità di trascinare l’ascoltatore in quello che è prima di tutto un’attitudine familiare a considerare il lavoro come responsabilità, impegno, ma anche come espressione di una gioia di vivere che deve coinvolgere tutti sensi sino a diventare un’esperienza, appunto, di vita.
Non a caso Federico Ceretto, fratello di Roberta, dichiara: “Il nostro è un divertimento. Una certezza è il metodo impostato di mio padre: far vivere ai clienti la nostra cultura e conoscere la bellezza del nostro territorio, le Langhe”.
In particolare negli anni la famiglia Ceretto si è contraddistinta per operazioni culturali di grandissimo livello, che li porta a ricoprire a buon titolo il complesso ruolo da mecenati, per un nuovo rinascimento che da vent’anni ha investito le Langhe e il Roero, dal 2015 dichiarati Patrimonio Unesco.
Come è nato questo vostro specifico interesse per l’arte?
Molti mi chiedono come sia nata la “strategia” di marketing che ha portato ad occuparsi di arte, ma non vi è nessuna strategia, in realtà l’inizio è stato abbastanza casuale. Anni fa non avevo intenzione di occuparmi direttamente dell’azienda di famiglia, mi sono laureata in letteratura sudafricana, e ho vissuto per qualche tempo in Germania. Stavo valutando se seguire la carriera universitaria e proprio nell’estate del 1999 mio padre mi ha chiesto di seguire la realizzazione della chiesetta del Barolo, relazionandomi direttamente con i due artisti, Lewitt e Tremlett, chiamati ad affrescarne le pareti interne ed esterne.
Oggi la cappella è meta di un vero e proprio pellegrinaggio di turisti e appassionati d’arte, circa 25.000 all’anno. In quel momento che mi sono resa conto che non sapevo davvero quanto facesse la mia famiglia per il territorio attraverso il vino e la sua cultura: mi sono quindi messa a studiare la materia, ho seguito dei corsi da sommelier, ho cercato di capire tutte le fasi di produzione e distribuzione. Noi siamo appassionati d’arte, indubbiamente, ma siamo prima di tutto produttori di vino, la nostra priorità è la cantina.
Ciò nonostante mio padre e mio zio avevano capito molto tempo prima che, oltre alla ricerca della qualità, bisognava promuovere il vino legandolo a delle iniziative di tipo culturale: il vino è esperienza, è gioia, condivisione e in questa prospettiva invitavano scrittori, giornalisti, avevano inventato un premio legato all’alimentazione, realizzato etichette di design per le bottiglie quando ancora nessuno ci aveva pensato: il mondo della cultura gravitava già in casa nostra.
Noi siamo degli agricoltori del lusso: noi non produciamo del grano che è funzionale al pane come bene primario, noi produciamo un bene senza il quale si può sopravvivere; pertanto abbiamo il dovere di mantenere sempre un livello qualitativo molto alto a cui legare un quid in più che è proprio l’esperienza sensoriale che diventa cultura: il barolo è un vino che può rappresentare appieno questo valore.
Vino ed espressione artistica: quale relazione tra loro?
Il paragone che faccio sempre per far comprendere perché abbiamo continuato in questa direzione è che in fondo l’arte contemporanee e vini come il barolo sono esattamente la stessa cosa: inizialmente sono incomprensibili, il barolo è circondato di un’aurea quasi magica, inavvicinabile, se non c’è qualcuno che te ne spieghi il valore, la differenza rispetto agli altri vini, rimane un prodotto difficile da comprendere, così come l’arte contemporanea, che ha bisogno di essere spiegata: può piacere o meno, ma almeno ha una chiave interpretativa. Se trovo qualcuno che mi fornisce una chiave di lettura, oltre all’aspetto emozionale, posso comprenderla.
Il vostro atteggiamento capovolto ricorda quello delle grandi fondazioni statunitensi: restituire al territorio e alla comunità quello che si è ricevuto…
Sì, nel nostro piccolo noi regaliamo le mostre alla comunità. Bisogna fare un discorso a monte: i produttori di vino mettono la faccia in un’attività che dà grandi soddisfazioni: troviamo sia corretto, io e la mia famiglia, che tutto quello che il territorio ti ha dato si debba restituire, oltre che eticamente giusto torna anche a proprio vantaggio.
Il fatto che le Langhe siano esplose negli ultimi anni come meta di un turismo di alto livello, è un grande risultato di cui ci sentiamo in parte responsabili; abbiamo lavorato tantissimo: qui abbiamo il paradiso terrestre, dobbiamo solo saperlo comunicare e la gente se ne sta rendendo conto. Attraverso l’arte abbiamo accresciuto e ampliato delle possibilità, ma parlerei di marketing involontario, al di là della grande qualità dei prodotti oltre al vino, non dimentichiamo il tartufo, la nocciola, i formaggi, la carne…: è un discorso di cultura del territorio, non è solo è marketing, è un discorso più ampio. Noi siamo degli appassionati che producono delle emozioni e cercano di trasferirle, investendo il guadagno nel territorio stesso.
Il prossimo appuntamento firmato Ceretto per l’autunno è un carico da 90, la grande Marina Abramovic, ma dal 1999 avete portato i più grandi nomi dell’arte contemporanea ad Alba, da Kiefer a Kiki Smith a Francesco Clemente….come hanno reagito alla proposta?
Il fatto che Alba sia una piccola città ci ha favorito: era talmente strano l’idea di venire in un luogo così decentrato, a cui si aggiunge la storia del luogo, della nostra famiglia, della produzione del vino…Tutti elementi che hanno incuriosito gli artisti abituati a grandi progetti ma sempre attratti da idee particolari, persino bizzarre, e questa indubbiamente lo era; si fosse già trattato di Milano o Torino le condizioni, gli attori coinvolti, i costi sarebbero stati diversi; gli artisti stessi avrebbero avuto, probabilmente, più timore di esporsi. Qui si sono sentiti rilassati, si sono sentiti accolti in famiglia. Con molti di loro sono iniziati dei legami di amicizia, come con Francesco Clemente e la sua famiglia, Kiki Smith ha abitato a più riprese più di 6 mesi ad Alba, Kiefer è rimasto in contato…
Nessuno avrebbe immaginato il successo della chiesa affrescata da Lewitt e Tremlett, ancora oggi citata come l’intervento culturale più importante che abbiamo fatto e sempre molto visitata. Oggi vengo continuamente contattata da persone che mi chiedono il patrocinio per degli eventi culturali, ma io sono un privato che produce vino! è significativo però che siamo percepiti come istituzione culturale.
Come vi relazionate con la città di Alba?
I comuni italiani ormai fanno fatica a promuovere iniziative culturali e quindi tutti, dal Sindaco agli assessori sono stati entusiasti quando abbiamo esposto il nostro progetto.
Il Comune ci ha dato a disposizione lo spazio del Coro della Maddalena, noi copriamo tutti gli altri costi. Le mostre durano circa 8 settimane, e i risultati in termini di presenza sono ottimi, sui 20.000 visitatori. L’idea di un museo o un galleria “nostre” non erano sin dall’inizio nelle nostre corde; nel tempo le idee si sono fatte più chiare, la collaborazione con la città di Alba mi ha permesso di misurarmi con uno spazio espositivo contenuto dove realizzare bei progetti; dopo 6 anni si possono tirare le somme e porsi delle domande: cosa si lascia davvero alla comunità? Eventi molto belli ma che vivono nei due mesi espositivi, se il turista visita le Langhe in un altro momento dell’anno non trova quello che vorrei, ossia un segno permanente che segni l’evoluzione culturale del territorio.
Qual potrebbe essere quindi il passaggio successivo?
Penso che dopo un periodo di belle esperienze sia venuto il momento di cambiare, di evolversi.
Con la stessa cifra delle mostre potremmo ogni due/tre anni realizzare progetti più radicati, ovvero coinvolgere un artista, sempre di levatura internazionale, per un segno permanente, al pari della cappella del Barolo, segni da distribuire nelle nostre proprietà, (abbiamo 160 ettari di vigneti più 150 ettari di terreno): le persone, come una grande caccia al tesoro, potrebbero andarle a cercare sul territorio, scoprendolo a poco a poco e divertendosi. Un percorso itinerante di opere d’arte di grandi artisti che rimanessero nel tempo. C’è anche da considerare il Roero, noi produciamo anche il Blangè, che è vino bianco il cui vigneto è coltivato proprio nel Roero, sarebbe bello estenderlo anche a questo territorio.
Ci siamo incontrate di recente in occasione della mostra sulla Pop Art nella ex chiesa di San Francesco a Cuneo dove presenziavi come rappresentante del consiglio della Fondazione della Cassa di Risparmio di Cuneo, che ha promosso l’iniziativa. Puoi parlarci di questo tuo ruolo?
Mi ha fatto molto piacere questa nomina, la Fondazione CRC è un’istituzione di origine bancaria che unisce Alba, Mondovì e Cuneo e sta investendo molto sul territorio con progetti socio-educativi e culturali (sono sette gli ambiti in cui opera); i consiglieri sono 23 e devono rappresentare le tre città, a cui si aggiungono rappresentanti della Curia e della Provincia di Cuneo. Il Sindaco di Cuneo, Federico Borgna, che è anche il presidente della Provincia, mi ha proposto al consiglio, incarico che dura tre anni rinnovabili, proprio in nome dell’impegno della mia famiglia nel campo della cultura e anche dell’apporto che potrei dare come donna rappresentante della mia generazione. Sono anche in diversi consigli di amministrazione, come quello della Fondazione Nuovo Ospedale Alba-Bra onlus, nel consiglio per le relazioni tra Italia e Stati Uniti, in quello dell’Agenzia di Pollenzo e dell’Università di Scienze Gastronomiche. Spero di portare la mia esperienza a beneficio di tutti.
Cosa manca ancora al territorio?
La ricettività e le infrastrutture. Manca ancora la capacità di fare marketing e la consapevolezza che abbiamo una grande brand da gestire, il Brand Langhe, ma stiamo cominciando a crederci e stiamo crescendo molto da questo punto di vista.
Tu sei mamma di un bambino che a breve compirà due anni. Cosa prospetti per lui ?
Bruno – si chiama come mio padre – è un bambino indubbiamente fortunato, ha una mamma che lavora in un’azienda anche divertente; il padre, mio marito, è un architetto con molti interessi, ha uno studio che collabora tra gli altri con Daniel Libeskind, un lavoro altrettanto creativo.
Sicuramente investiremo nel dargli tutte le opportunità possibili per poter scegliere una sua strada. Noi siamo appassionati in quello che facciamo, speriamo di comunicargli tutta la nostra passione, a prescindere dalle sue scelte, non credo nell’obbligo familiare a tutti costi.
Io erediterò una parte di azienda, che conta 200 dipendenti; come figlio unico mi piacerebbe molto coinvolgerlo, gli daremo tutti gli strumenti per capire che questo è un bellissimo lavoro. Per quanto riguarda l’arte ho già iniziato lo porto già alle mostre, così come negli allestimenti. Attraverso Bruno ad esempio ho notato come Bacon sia molto colorato, che non è il primo aspetto che noti della sua opera. E’ importante guardare le opere d’arte con gli occhi dei bambini, sono degli incredibili osservatori, molto più di quello che pensiamo.