La conversazione con Salvatore Zito, pittore dal curriculum importante e decennale, avviene nel suo studio di Via Po, sapientemente disordinato, ed è occasione per presentare il catalogo NICECREAM (più di 150 interpretazioni pittoriche dello stick, il gelato da passeggio, un leit-motiv che è diventato un suo marchio di fabbrica, variazione su un tema di grande successo) attualmente esposto nella vetrina della libreria Luxemburg, che racchiude gli ultimi vent’anni della sua ricerca.
Del suo lavoro scrive acutamente Gianni Vattimo, negando l’aspetto immediatamente giocoso e innocuo del soggetto in questione, e in generale della sua pittura decisamente empatica: “Niente di tranquillizzante, niente di pacificamente ritornante su di sé, ma turbamento e un certo effetto di inquietudine decisamente provocatoria. Saranno questi coccodrilli, visti in forma di gelato, gli annunciatori di un mondo “altro”, preoccupante ma minaccioso solo entro il limite tollerabile del gioco, come si addice a ciò che rimanda all’arte e non “salta” risolutamente nel terreno della vita?”
Uno sviluppato senso estetico (ma anche per il divertissment, la metafora, un ironico distacco) per Salvatore permea tutto il quotidiano, dal cibo agli oggetti e persino alle persone di cui ama circondarsi. La vocazione alla pittura è vissuta come contemplazione, una Dea esigente e al contempo generosa, che richiede una dedizione silenziosa, tempi dilatati, passione senza compromessi. Condizioni che fanno tremare i polsi degli animi fragili, e misurarsi con la difficile arte dell’equilibrio che troppa solitudine può compromettere.
La pittura dunque come strumento per accedere alla Bellezza, per migliorare e migliorarsi, in un percorso di auto-analisi che non indulge a facili assoluzioni: dipingere è compiere un eterno autoritratto, è specchio implacabile dello stato d’animo, è auto-terapia e citazione, riflessione e istinto. È se stessi e al contempo altro da sé, sino ad assumere i contorni di qualcosa che più non ti appartiene, perché fa parte di un universo di forme e colori che andranno ad emozionare qualcuno che nulla sa di te, ma che a te sarà legato. La magia che solo la pittura, quella vera, sa donare. Una pittura, quella di Zito, ludica, malinconica, sincera, tecnicamente sapiente.
Salvatore, ci parli di questo tuo libro?
E’ un libro d’artista (ci sono copertine diverse che si alternano) dedicato agli stick, volutamente senza sottotitoli. Sono più di 150, raggruppati per tipologia, da quelli vegetali (di cui molti spinosi, con gli aculei, a ricordare l’aggressività insita nella natura) a quelli animali, a quelli ludici, al tema gastronomico, al tema dedicato alla nostra città che ha dato vita al progetto “I Love Torino”…
Gli stick sono i “pinguini” da passeggio (così il loro primo nome dello storico gelataio torinese -Pepino- che li ha inventati): l’applicazione della metafora, insieme all’ossimoro, permette di sviluppare un racconto, una nobile ossessione, più che un multiplo di derivazione pop-art. In fondo il gelato con lo stecco è nato un secolo prima della pop-art, con cui può esserci qualche contaminazione, ma non un rapporto diretto. Il mio primo stick è del 1997, ed è entrato in un discorso di scomposizione su grande scala di pieni e di vuoti, affiancato da un’installazione di stick tridimensionali, in scala 1:1, monocromi.
Il primo dipinto aveva invece una veduta di Torino e successivamente alcuni sono anche sagomati ad evocare architetture, come la Mole.Dopo l’esperienza di pittura legata ad una certa idea di classicità, sentivo l’urgenza di lavorare su un supporto inusuale, tridimensionale.
Quale è lo scopo ultimo, al di là del soggetto-supporto?
Rappresentare la Bellezza, che è effimera, e che ben si collega all’idea del gelato: un soggetto della quotidianità ha assunto quindi i caratteri di un’icona. I primi avevano tutti vedute e si legavano ad un concetto di souvenir, rappresentando angoli di Torino noti e meno noti, o simboli cittadini come la Baratti, la Leone…Diventa quindi un supporto in cui anche l’aspetto progettuale è elemento nodale, poiché è sottolineato il passaggio dal bidimensionale al tridimensionale; ad esempio alcuni sono collocati sotto campana di vetro come pitto-sculture.
Io sono e mi sento profondamente pittore, sono un masticatore del colore, ma amo anche la tridimensionalità, che non oso definire scultura, disciplina di cui ho rispetto, e che mi ha sempre intrigato…Gli stick sono stati protagonisti di tre mostre recenti che hanno avuto molto successo, a Vercelli presso la galleria di Claudio Balocco, a Villa Nigra a Miasino nell’ambito della mostra Menta e Rosmarino organizzata dall’Associazione Asilo Bianco di Enrica Borghi e infine a Casa Bossi a Novara, splendida villa neoclassica realizzata dall’Antonelli, dove sono state esposte grandi tempere su carta.
Quali sono i temi ricorrenti nella tua pittura?
Oltre ai “pinguini” c’è lo studio sugli animali, (a cui è stata dedicata una bella mostra al Museo di Scienze naturali di Torino) o gli spiderman; amo lavorare a cicli. In realtà nasco come pittore di pitture morte. Ho fatto gli studi classici, ho anche insegnato, ma la pittura è una materia vocazionale, mi considero autodidatta. La mia formazione è avvenuta nei musei, sono sempre stato un divoratore di musei: ad un giovane pittore consiglierei senz’altro, più che iscriversi all’accademia, di viaggiare, arricchirsi interiormente, impossessarsi di più saperi possibili, poi spazzarli via per strutturare se stessi. Lavorare, lavorare, lavorare, e non solo concettualizzare, sporcarsi le mani senza cercare scorciatoie.
Quali sono le tue fonti di ispirazione?
Non ho una fonte d’ispirazione unica, sono un pittore di formazione classica, tutta la pittura per me è interessante. Inizio a dipingere precocemente da metà degli anni ’80 come pittore di nature morte, poi affronto il citazionismo e i paesaggi della memoria, paesaggi intesi in senso primordiale: un tondo dal titolo “Tumulti” è nella collezione permanente della GAM di Torino, e rappresenta una sorta di big-bang, un paesaggio apocalittico. Successivamente, dall’inizio degli anni ’90 e per tre anni, ho lavorato su un solo colore, il rosso. Un altro argomento che ho lungamente affrontato è quello degli animali, che ho avuto modo di osservare a lungo al Museo di Scienze Naturali di Torino,Tuttavia non mi ritengo un animalier, li reinterpreto come soggetti su grandi dimensioni e anchnuovamente possono diventare opere anche scultoree…Il rinoceronte ad esempio è un’opera di 3, 5 metri con i corni tridimensionali che raccontano una storia anche grazie alla meta-scultura. Quasi della citazioni del barocco e del rococò, dove pittura e scultura diventano sequenziali, e seconda e terza dimensione si susseguono in un unico ensemble.
Progetti futuri?
A breve avrò una mostra con Alberto Crevola di Spirale Arte, ma attendo sempre sfide nuove, è una mia caratteristica; devo dire che lavoro anche molto su committenza, un po’ come fossi un pittore dell’800, ho una collezionismo che mi segue e che spesso incontro nel mio studio…Tutti gli studi in cui ho lavorato hanno sempre rappresentato per me un luogo senza-tempo, un’atmosfera da bohème parigina più che da loft americano. La parte umanistica che è in me è predominante e influenza tutto il mio vivere, dall’estetica, alla cucina, alla cura per i dettagli. Per me la Bellezza in senso lato è importante, oggi l’arte contemporanea è legata ad una sorta di cannibalismo, ad un brutalismo delle immagini…tutto è antiestetico, con una violenza visiva, urlata, a prescindere dalla profondità dei contenuti. Spesso non c’è nemmeno denuncia, piuttosto volgarità. Io rifuggo da tutto questo.
Ti sei mai misurato con la scrittura?
Mi è più facile dipingere, ma amo molto la lettura e la poesia; la pittura comunque non è mai fine a se stessa, non è esercizio di stile, deve passare sempre il sentimento, la mia non è mai pittura meramente fotografica, io la definisco pittura emozionale, con un sottile cenno di malinconia, talvolta di ironia. Fare pittura oggi è una delle cose più belle ma tremendamente impegnative, richiede attitudine alla solitudine, è contemplazione, che non è guardare, ma osservare. La ricompensa è ricreare, ogni volta, quella sottile emozione che solo la pittura può dare.
Come ti definiresti?
Pittore e basta. Artista mi sembra un termine pretenzioso…Già da bambino sapevo che avrei fatto questo mestiere, è una responsabilità verso se stessi, perché impone uno stile di vita, anche faticoso, e soprattutto una grande dose di umiltà.
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