Finalmente approda alla Reggia di Venaria Reale una mostra fotografica davvero degna di questo nome. Ci volevano la figura e le opere di uno dei più importanti artefici dell’immaginario editoriale del Novecento: Peter Lindbergh.
Difficile trovare nella moda e nelle riviste di settore valori iconici elevati. I nomi dei pochi fotografi capaci di smarcarsi da un’iconografia banale e ripetitiva sono davvero pochi: Richard Avedon su tutti in assoluto, poi Irving Penn, a suo modo anche Helmut Newton e pure Steven Meisel, tra i più recenti. Sì, qualcuno c’è anche in Italia, ma bisogna ben isolare le pagliacciate “da guru” che tanto van di moda qui, pur di far parlare di sè a tutti i costi, dal lavoro vero e proprio. Allora si vede bene la differenza tra il professionismo del bravo artigiano, anche virtuoso, da quel qualcosa in più che solo le personalità migliori riescono a tirare fuori.
Lindbergh appartiene ai pochissimi che pur facendo del lavoro commerciale e soddisfacendo le commissioni, riescono a dare forma ad una visione, che rimane forte e costante nel tempo, anche declinandola in mille modi e situazioni. Lindbergh inventa una donna, una visione della donna, del tutto nuova e ancora oggi fondamentale: una femminilità indipendente, forte, senza per questo degenerare mai nella caricatura del maschile. Le scelte tecniche, le procedure operative, ogni singolo tassello messo in azione da Lindbergh esprime il concetto della vitalità, dell’energia, della seduzione, ma sempre come libera volontà, nel pieno controllo del soggetto, senza sottomissioni di sorta a nessuna dipendenza, nemmeno quella dalla propria bellezza fisica.
Il rifiuto del fotoritocco ricostruttivo, l’uso del mosso e delle pellicole ad alta sensibilità, quasi di sapore reportagistico, la ricerca del movimento, non a caso la danza è terreno fertile per le sue icone, sono tutte scelte che generano un immaginario più vero del vero. La forza di Lindbergh sta proprio nella sua capacità di dominare soggetti che già di per se stessi sembrerebbero indomabili. Li porta sul suo terreno. Una cultura la sua, di radice nordorientale europea, che vive di richiami antichi dove l’umanità si divide in generi, ma non per questo in gerarchie sociali.
L’allestimento della mostra, le immagini scelte, tutto converge a dare la migliore presentazione possibile di un autore a tutto tondo. Mostra da vedere senz’altro. Anzi, andrebbero obbligati a vederla tutto coloro che apprezzarono quella di Steve McCurry. Una pena etica, giusto per dar loro modo di poter comprendere la differenza di valore tra chi il pubblico lo compiace e chi lo sfida a cambiare il modo di pensare.
Fulvio Bortolozzo