“La post-verità non è Trump. Trump ha letto Rorty?” – Una riflessione sulla definizione di post-verità con il filosofo Maurizio Ferraris al palazzo Cisterna
“Argomentazione, caratterizzata da un forte appello all’emotività, che, basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati, tende a essere accettata come veritiera, influenzando l’opinione pubblica”: questa la definizione fornitaci dal dizionario Treccani della “post-verità”, eletta parola dell’anno 2016 dall’Oxford Dictionary, soprattutto in seguito al referendum britannico sulla Brexit e alla vittoria di Donald Trump alle presidenziali USA.
Ma che cos’è, precisamente, la post-verità e che cosa rende la nostra epoca dominata da quest’ultima?
Sono due le interpretazioni possibili, secondo la visione del filosofo Maurizio Ferraris, uno dei pensatori italiani più autorevoli a livello internazionale e professore di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Torino dal 1995. La prima è di carattere idealistico, e definisce la post-verità come una sorta di “effetto collaterale e perverso” del post-modernismo, il più influente movimento filosofico della seconda metà del ‘900, i cui presupposti sono stati ben illustrati dal pragmatista Richard Rorty e sono i seguenti: l’ironizzazione, come distacco ironico nei confronti delle proprie affermazioni; la desublimazione, ossia l’idea in base alla quale la razionalità non sia un bene assoluto dal momento che, spesso, le persone si intendono maggiormente sul piano dei sentimenti; la deoggettivazione, secondo cui le società si gestirebbero meglio attraverso la solidarietà e non mediante l’oggettività.
Secondo Ferraris, però, questa interpretazione idealistica non funziona, perché “tutti dicono quello che pensano, credendo che questo sia vero e non pensando di dire bugie, Trump compreso. Il fenomeno della post-verità ha, quindi, condotto a un’inflazione della verità stessa”.
Preferibile, dunque, una visione materialistica, per la quale la post-verità sarebbe il risultato della rivoluzione documediale. Le parole chiave sono tre: in primo luogo, la documentalità, alla base dell’idea secondo cui la società si fondi essenzialmente su una condivisione di memorie, perlopiù scritte: l’emblema è il cellulare, trasformatosi, da macchina adibita alle sole telefonate, a macchina per scrivere e, ancora di più, per registrare, in modo del tutto spontaneo, parole che subitaneamente si tramutano in veri e propri archivi, facendo divenire l’oggetto sociale un atto registrato.
La moltiplicazione continua e la produzione automatica ed esagerata di documenti, unita allo sviluppo della medialità, ha portato poi, negli ultimi decenni, alla creazione della documedialità: ogni ricettore di documenti è, anche, un produttore degli stessi (es. Big Data). Di qui, la teoria che la documedialità sia “il nuovo Capitale e sia post-populista”: secondo Ferraris, infatti, la nostra epoca non sarebbe più caratterizzata dal capitalismo e cinque sarebbero gli elementi che dimostrano l’ingresso di essa nella post-verità: 1) produciamo documenti e non più merci: ognuno di noi è intento a scrivere, telefonare e lasciare tracce e il rapporto tra le persone celato dal rapporto tra le merci teorizzato da Marx è ora reso palese dal web e dai dispositivi elettronici;
2) sussiste una prevalenza della mobilitazione rispetto al lavoro: vi è, infatti, una gigantesca quantità di lavoro non retribuito sui social network, azioni che richiedono mobilitazione in maniera automatica e inconsapevole;
3) perché, allora, si utilizzano? Per il riconoscimento, e non più per il sostentamento: attraverso la fruizione dei nuovi dispositivi, infatti, si ricerca il riconoscimento simbolico da parte degli altri, che appare ora essere il fine più importante (come nel caso del selfie, che non sarebbe espressione di narcisismo, bensì richiesta di approvazione);
4) vige, dunque, il desiderio di autoaffermazione anziché lo spettro dell’alienazione: gli oggetti elettronici, infatti, annullano il confine e la distinzione tra tempo del lavoro e tempo della vita, per cui non siamo più alienati dalla tecnica, ma rivelati dalla stessa, in una sorta di comunismo realizzato, dal momento che è ora possibile compiere qualsiasi cosa in qualsiasi momento e senza costrizioni;
5) infine, la presenza di monadizzazioni e non più di classi: “la post-verità ha un vantaggio filosofico, perché finalmente ci fa comprendere che cosa siano le monadi di Leibniz”. Ciascun individuo, infatti, è libero di condividere la propria opinione, le proprie convinzioni, dando luogo a una sorta di “atomismo sociale”, per cui ognuno di noi si dà la propria rappresentazione dell’universo costituita da idee, convincimenti e verità propri: “una finestra da cui guardare il mondo”.
La post-verità, quindi, è un progresso e realizza il primo dei principi illuministici esposti da Kant nel suo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? (1783), ossia la capacità di ognuno di servirsi, con coraggio, della propria intelligenza, senza essere guidati da un altro. Nell’epoca attuale (e, si noti bene, solo in alcuni posti del mondo), perciò, “ognuno scrive il proprio giornale, ed è il direttore e l’opinionista di se stesso”.
Roberta Scalise
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