Se l’artista è un visionario di divina intuizione, ispirato interprete di un comune sentire che per primo traduce in forma estetica e interrogativi universali, mai come oggi la toccante installazione dell’artista francese Christian Boltanski (Parigi, 1944) dall’emblematico titolo “DOPO”, inaugurata pochi giorni fa alla Fondazione Merz, assume i contorni di una preveggente visione dei drammatici fatti di Parigi del 13 novembre per la sua forza di ricongiungere le nostre vite quotidiane alla tragicità della Storia, ponendo quesiti senza risposta, in una visione poetica e straziante, proposta da un artista di origine ebraica nato in Francia in tempo di guerra, il che pare trascendere i limiti di una semplice coincidenza con la nostra tragica attualità.
I ricordi delle persone, la loro stessa essenza, si fanno tracce indelebili dai contorni sempre più più sfocati, come le 200 fotografie di persone stampate su grandi tessuti trasparenti appesi al soffitto e in movimento: tra esse, simulacri che volano intorno a noi, come dice l’artista, possono esserci vittime, criminali, esseri malvagi, santi: tutti sono già morti, ormai non si sa più chi siano; possiamo soffermarci su di alcun di essi, ma poi dobbiamo lasciarli andare, fisicamente e psicologicamente, e pensare al “dopo”. Dopo significa dopo la morte, ma anche dopo l’oblio: ora quei volti semplicemente sono spiriti, senza giudizi e passato: quanti dopo ci sono stati, quanti ancora ci saranno, interrogativi che solo il tempo saprà svelare, o dissolvere.
La capacità di Boltanski di aderire concettualmente al nostro presente (si pensi all’ installazione sulla tragedia di Ustica o ai desaparecidos cileni evocati dallo struggente video Animitas esposto all’ultima Biennale) assume alla Fondazione Merz i tratti di una inquietante e sofferta premonizione dei nostri giorni, così come evocata dai volti che nel video Entre Temps si sovrappongono a quelli dell’artista e idealmente a quelli dei visitatori, i cui cuori battono all’unisono con quelli degli assenti: oggi le vittime di Parigi siamo tutti noi, nel nostro essere vulnerabili, nel nostro essere indistinguibili, per la nostra stessa essenza umana, dai nostri carnefici.
I volti si assottigliano sino a diventare ombre, ma il ricordo del Passato deve rimanere anche se il Tempo e la Storia lo trasformeranno sino a deformarlo irrimediabilmente come nell’installazione Ombres, dove un tragico teatrino mosso dal vento proietta lunghe e tremule ombre sulle pareti, richiamando il potere dell’inganno e dell’illusione della percezione.
Scendendo le scale della Fondazione si è accolti dall’applauso liberatorio del video Clapping hands (i nostri fantasmi?) e quando si arriva nel sottosuolo ci si trova all’interno di una sala piena di sculture bianche fatte di scatole di cartone, imballate nella plastica. I colori che ci investono, bianco, rosso e blu della scritta DOPO (i colori della bandiera francese…) creano dei riflessi sul cellophane e rimandano ad una sorta di archivio della memoria, scatole che non aspettano che di essere riaperte per riportare alla luce piccole e grandi storie, narrazione collettiva che si chiama Vita.
Recentemente Christian Boltanski ha dichiarato «Sono nato nel ventesimo secolo in Europa e sono diventato un artista, ma avrei potuto essere uno sciamano in America del Sud o uno stregone in Africa. I nostri mestieri si assomigliano, ma solo che per chi è religioso esiste una risposta». E forse, quando fatti come quelli che stiamo vivendo ci colpiscono per la loro insensata brutalità, neanche la trascendenza può darci le risposte, ma solo il senso tragico della nostra immanenza, il nostro essere pari Umanità su questa Terra.
Cristian Boltanski, DOPO, sino al 31 gennaio 2016, Fondazione Merz
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