Arte tecnologia e cultura nel museo di domani.
Se ne è parlato a Palazzo Madama nel workshop Museum: Vision 2026
Si è svolto nelle giornate del 16 e 17 giugno nelle sale di Palazzo Madama il workshop MUSEUM: VISION 2026, organizzato dalla Fondazione Torino Musei con la collaborazione di Singularity University – Geneva.
Il workshop è stato coordinato da Carlotta Margarone, responsabile della comunicazione, marketing e web della Fondazione e Nicoletta Iacobacci, direttore per la Svizzera di Singularity University. Quest’ultima, università del “futuribile”, è uno degli esiti più singolari della Silicon Valley: si propone come “incubatore di idee” e offre programmi educativi e di potenziamento di start-up. Fondata nel 2008 da Peter Diamandis e Ray Kurzweil presso il Research Park della NASA in California, si concentra sul progresso scientifico e sulle tecnologie ” esponenziali” per immaginare e determinare lo sviluppo delle scienze e delle tecniche dei prossimi anni e fornire agli “studenti” (tra i quali manager, studiosi, scienziati da tutto il mondo) una previsione realistica e gli strumenti per affrontarli.
Applicando dunque questi principi al contesto museale il workshop si è proposto di offrire uno sguardo su ciò che accadrà alle esperienze museali nei prossimi dieci anni e come queste influiranno direttamente sulle componenti sociali ed economiche della società, in un contesto di profonde mutazioni, sovvertimento dei concetti di arte e scienza e quarta rivoluzione industriale.
Prestigiosi i nomi che hanno partecipato in qualità di esperti del settore, da Dale Herigstad, direttore creativo vincitore di 4 Emmy Award (tra i film, Minority Report), Chloe Jarry, (Camera Lucida Productions) che ha trattato di neuroscienze e intelligenza artificiale, Giovanni De Niederhausern, direttore operativo della Carlo Ratti Associati, Marcela Sabino, direttrice della sezione Lab del Museu do Amanhã (Museo del Domani) di Rio de Janeiro, Gianmarco Veruggio, Presidente della Scuola di Robotica di Genova e James Davis, Programme manager di Google Cultural Institute, che ha parlato di convergenza tra Arte, Tecnologia e Cultura.
I lavori hanno affrontato il tema degli scenari futuri attraverso l’analisi dei trends, l’individuazione dei makers (gli artigiani oltre il digitale, ossia coloro che attivano concretamente le nuove tecnologie) e la risposta del pubblico all’interno del crowd, ovvero il museo come “comunità al servizio della comunità”: se il visitatore come utente finale ha gli strumenti per diventare parte attiva del processo conoscitivo, l’innovazione deve obbligatoriamente passare attraverso nuove pratiche sociali e di community.
A questo proposito uno degli interrogativi di partenza è proprio se il Museo sia un Tempio o un Forum, o piuttosto l’interazione tra i due. Per sviluppare questo ultimo punto risulta fondamentale il passaggio dalla realtà virtuale, dotata di dispositivi escludenti, dove l’esperienza non prevede la partecipazione di altri individui e non consente neppure la percezione del proprio corpo e la realtà aumentata, possibile attraverso nuovi dispositivi come gli occhiali o la lente a contatto intelligente, le “smart contact lens”, collegate direttamente allo smartphone, elemento che consente di mantenere una partecipazione attiva tra se stessi e il museo e allo stesso tempo condivisa all’interno della struttura museale con gli altri fruitori. Nel momento in cui gli utenti hanno tutti gli strumenti per diventare parte attiva del processo conoscitivo, l’innovazione passa sempre di più da nuove pratiche sociali e creazione di community che trovano nel networking un fattore abilitante.
Per rendere la teoria più concreta si è quindi passati ai workshop che hanno ipotizzato temi e applicazioni, dal museo aumentato che prevede la restituzione virtuale al sito di appartenenza dell’opera d’arte (con l’esempio dell’annosa e complessa questione dei resti del Partenone contesi dalla Grecia al British Museum) alla scelta condivisa dalla comunità dei visitatori dell’opera d’arte da recuperare dai magazzini mediante votazione, all’implementazione di informazioni (lo storytelling) che tengano conto della storia personale del singolo utente in relazione all’opera osservata (per un quadro che rappresenta un paesaggio geograficamente preciso viene evidenziato un dato strettamente privato come il luogo di origine dei propri antenati).
La modalità operativa del workshop ha visto l’applicazione del backcasting, un metodo di studio ed analisi che prefigura i risultati attesi in un tempo futuro e, da essi, torna al presente per individuare i percorsi più plausibili per raggiungerli, fino a risalire all’indietro sino al primo step di fattibilità.
Secondo una leggenda metropolitana mai smentita e ricordata dalla dottoressa Iacobacci, il backcasting fu applicato dalla NASA quando nel 1961 John Kennedy, in risposta al primo uomo lanciato nello spazio dall’URSS, promise che entro dieci anni l’America avrebbe permesso all’uomo di andare sulla Luna e farne ritorno, rendendo l’operazione safe mission. Gli scienziati della NASA, che non avevano mai pensato a questa possibilità, iniziarono il ragionamento al contrario, immaginando e organizzando la parata di rientro per festeggiare gli astronauti, per poi pensare alla fase subito precedente, ovvero l’impatto nell’atmosfera della navicella spaziale, quindi il distaccamento dalla superficie lunare, e, a ritroso, l’allunaggio e la partenza.
Vera o falsa, questa storia ricorda come, date le competenze scientifiche, la visionarietà e la creatività siano per loro stessa natura attitudini che prevedono una buona dose di coraggio, moltissima immaginazione e almeno un seme di follia. Utilissimi, se non necessari, in tempi di crisi, dove il futuro è più che mai da inventare.