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Incontriamo Pablo Atchugarry, scultore uruguayano noto a livello internazionale per le sue sculture in marmo, elegantissime verticalizzazioni di estrema complessità formale e al contempo di ipnotica leggerezza materica (non a caso definiti Obelischi del Terzio Millennio), nel suo studio-laboratorio, un capannone situato a Sirone, nei dintorni di Lecco. Non lontano da qui l’artista vive e lavora dalla fine degli anni ‘70 quando risiede in Italia. Nato a Montevideo nel 1954, Atchugarry ha alle spalle un impressionante curriculum che lo ha visto protagonista di molte esposizioni personali e alti riconoscimenti, come il Premio Michelangelo conferitogli nel 2002 dalla città di Carrara e la partecipazione alla Biennale di Venezia del 2003 (in rappresentanza del suo paese) con un’installazione di 8 grandi sculture. Si ricordano inoltre la sorprendente Soñando New York posizionata a Times Square nel 2012, la scultura in legno d’ulivo (alta più di 5 metri e intitolata La vita dopo la vita, scolpita da un legno d’ulivo di 800 anni) realizzata per il padiglione Uruguay dell’Expo 2015 e la straordinaria mostra personale Città Eterna, Eterni Marmi, tenutasi a Roma presso il Museo dei Fori Imperiali e i mercati di Traiano: l’artista ha esposto per l’occasione 40 sculture realizzate in marmo di Carrara, marmo rosa del Portogallo, bronzo e acciaio, poste in dialogo con l’incredibile contesto archeologico. A breve il Maestro inaugurerà una personale a Londra e poi si recherà in Uruguay dove, a Manantiales, aiutato dalla sua famiglia e in particolare da uno dei suoi figli, Piero, ha dato vita alla Fondazione che porta il suo nome.

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Pablo Atchugarry in laboratorio

La Fondazione ha come obbiettivo quello di promuovere le arti nel suo paese (anche grazie ad una splendida collezione di opere d’arte contemporanea raccolte dall’artista negli anni) e permettere ai giovani di avvicinarsi alle arti anche da un punto di vista pratico, con attività di laboratori. Alla Fondazione si affianca il progetto del Parque Internacional de Esculturas Monumentales, un parco di sculture realizzate da artisti di diversi paesi, dove realizzare l’ambizioso progetto di far convivere arte e scultura in un armonico scambio e allo stesso tempo realizzare un ponte tra le arti e gli artisti dei diversi continenti. Parte della collezione dell’artista è stata esposta a Torino lo scorso maggio nell’ambito della mostra Love and Choice opere dalla Fondazione Atchugarry.
Il nostro incontro avviene all’ombra di Abbraccio Cosmico, scultura in marmo di 8 metri e mezzo scavata da un blocco di 56 tonnellate, la più alta sinora mai realizzata dall’artista, un’imponente stele-obelisco che si sviluppa verso l’alto in una tensione verso l’assoluto, al pari di una fiamma o di figura astratta che tenda le braccia verso l’Infinito, nel desiderio di comprenderlo. La materia qui si esprime in tutta la sua potenza, domata, levigata, plasmata dall’artista in una lotta che si immagina tutt’altro che semplice.
Pablo si racconta con generosità e intelligenza rivelando un temperamento carismatico raro e al contempo umile, un atteggiamento improntato ad una risoluta, gentile pacatezza che non contrasta con la sua fisicità, anzi, è in coerente armonia con le sue opere di grandi dimensioni in marmo, forza e delicatezza allo stesso tempo, durezza del materiale plasmata dalla poesia del “fare”.
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D: Quanto è importante la materia per il tuo lavoro?
R: Tutto nasce dalla materia. Io la scelgo personalmente: frequento le Cave Michelangelo, in particolare la cava del Polvaccio, già dal 1979, quando ancora era di altra proprietà rispetto ad oggi. Proprio alla fine degli anni ’70 sono arrivato alle Alpi Apuane “nulla tenente nulla sapiente” (ride, n.d.r.) sono andato da uno dei più importanti maestri, Nicoli, e lì ho iniziato a scolpire il mio primo pezzo sotto gli occhi di altri scultori che mi guardavano malissimo per la foga che mettevo nello scolpire senza dosare la forza, errore che si commette all’inizio: ricordo ancora questa mia “urgenza del fare” che avevo sin da subito e che non mi hai abbandonato. Io arrivavo dalla pittura, mio padre Pedro, pittore anch’egli, era stato allievo di Torrés Garcia, costruttivista uruguaiano molto importante che ha vissuto in Europa, in particolare a Barcellona: ha conosciuto Mondrian, Picasso, e nel 1930 a Parigi fondò con Seuphor il gruppo e la rivista Cercle et Carré, che ebbe solo una uscita. Quando tornò in Uruguay portò le novità europee, ciò che aveva visto, esperienze di vita vissuta con l’idea di replicarle in patria. Per questo si aspettava un aiuto concreto da Picasso: quando lui gli diede un assegno glielo restituì sdegnosamente perché non era quello che intendeva, era un altro l’appoggio di cui aveva bisogno. Mio padre era molto legato a lui: io sono nato in ambiente in cui la pittura era un elemento naturale e da subito ne sono stato attratto. Mio padre ha subito coltivato questa mia passione proteggendomi dalla mia stessa ingenuità e aiutandomi a crescere nelle mie aspirazioni.
D: Nel tuo lavoro il rapporto con la natura è fondamentale
R: Io ho la fortuna di essere nato in Uruguay dove c’è molto spazio e la natura è quasi completamente incontaminata; proprio in Uruguay ho due progetti importanti, uno è la Fondazione che porta il mio nome, e l’altro è il Parco di sculture di artisti internazionali. In questi anni grazie al mio lavoro si è creato naturalmente un ponte di scambio tra le due rive dell’Atlantico anche con altri artisti europei che includerò nella Fondazione.
D: Come sei arrivato in Italia?
R: Tutto è casuale (ma forse il caso non esiste). Per noi il riferimento culturale è l’Europa, specialmente per l’Uruguay dove c’è poca presenza autoctona: come si dice da noi, tutti siamo scesi da una barca. E questa barca di solito veniva dall’Europa! Mia nonna veniva da un paesino sul confine tra Piemonte e Liguria, aveva tre sorelle, era rimasta di orfane di padre. Non so per quale scelta del destino la mia bisnonna paterna arrivò in nave dopo tre mesi di viaggio in Uruguay, ha lasciato mia nonna di 11 anni lì, lei ha trovato lavoro presso una famiglia, si occupava di un ammalato, poi la bisnonna è ripartita e ha portato le altre due sorelle, lasciando quindi mia nonna da sola per una anno. Questa è la forza di questi emigranti, una storia drammaticamente molto attuale. Anch’io ho poi chiuso il cerchio, col ritornare in Italia: per me era come tornare a casa. Il primo posto è stato Roma.
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D: Perché Lecco?
R. Il mio primo posto in Europa era Parigi, era la mia base. Incontro una ragazza di Lecco, una pittrice, che mi ha proposto di raggiungerla perché conosceva un mercante che poteva organizzarmi una serie di mostre di pittura, perché allora io dipingevo.
Pittura astratta o figurativa?
Già all’epoca ero tra la figurazione e l’astratto, stavo già cercando di sintetizzare la figurazione. Le mostre poi non si fecero però un gallerista svizzero, qui a Lecco, mi propose un’altra mostra e così iniziò il tutto.
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Ma cosa ti ha fatto innamorare del luogo?
La natura, per me molto importante, qui è molto presente con la forza di queste montagne, una terra promessa tra lago e monti. L’Uruguay è molto piatto: qui c’erano i monti, delle vere e proprie sculture naturali.
Poi subentra la scultura…
R: Sì, potrei dire la mia condanna, che mi ha assorbito completamente…ancora adesso io lavoro 12 ore al giorno, sabato e domenica compresa. Ma non fa solo parte della mia vita, è la mia vita, mi fa sentire vivo, è il mio impeto. Io parto dal formato del blocco che ho scelto, fatto tagliare: le opere sono potenzialmente lì, io dovrò vivere almeno 200 anni per lavorare a tutto quello che ho in mente.
Hai anche uno studio in Uruguay?
Si, ho lo studio all’interno della Fondazione di cui parlavo prima. Poi c’è il secondo progetto, a 40 km di distanza più ad est con 159 ettari, dove vorrei creare una riserva naturale con riserva di scultura: è più di un parco, è una riserva perché anche lo scultore è una animale in estinzione.
Lo scarso anno hai realizzato una mostra incredibile, a Roma, ben quaranta sculture in marmo di Carrara, marmo rosa del Portogallo, bronzo e acciaio esposte nell’area dei Mercati di Traiano e nel Museo dei Fori Imperiali
E’ stata una sfida incredibile, sono rimasto meravigliato nel vedere come queste mie opere dialogassero con la storia di 2000 anni, ma c’era anche il rischio che le sculture rimanessero schiacciate dal confronto. Mi sono adeguato all’importanza del contesto, ho cercato delle opere che assomigliassero a delle figure che potesse danzare nello spazio.
Nelle tue opere, pur nella verticalità, c’è sempre un’attenzione alla forma tonda, accogliente, che, pur in modo indiretto, richiama le sinuosità del ventre femminile.
Si, cerco sempre la donna nelle mie opere, la parte femminile, la rotondità della Terra, la donna come fonte di vita e nascita. Già da bambino ero affascinato dalle veneri preistoriche, le due ricchezze che abbiamo: la Natura e la Donna, intesa come capacità di procreare.
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Qual è invece il tuo rapporto con la fusione in bronzo?
La fusione mi consente di misurarmi con il colore e con alcune forme che con il marmo non posso fare. Il bronzo ad esempio può essere patinato o dipinto. Mi sono misurato anche con il legno, penso alla scultura che ho realizzato per il Padiglione dell’Uruguay dell’Expo, per il quale sono partito da un tronco di ulivo di 800 anni destinato a diventare legna da ardere. Un’opera che ho chiamato la Vita dopo la Vita: solo l’Arte può far vivere una seconda vita. Abbiamo bisogno della Bellezza, antidoto alla bruttezza che ci circonda.
Come vorresti che la tua opera sia ricordata dopo di te?
Già da anni penso a cosa lasciare dopo di me. La Fondazione è testimonianza e lascito di grande responsabilità, morale ed economica, che affido ai miei figli. Penso al parco di Chillida, oggi purtroppo chiuso…Ho sempre apprezzato Chillida, era definito il poeta della luce scura; le mie sculture sono quasi tutte bianche perché il bianco è in grado di cogliere e di riflettere ogni sfumatura, invece Chillida è riuscito a rendere queste sfumature con forza e leggerezza attraverso il ferro. Lui ha pensato di lasciare questo parco e oggi purtroppo è in questo stato…Mister Rockefeller, 101 anni, e che lascerà tutta la sua collezione di arte dell’800 (il pezzo più recente è un Picasso del 1914!) al MOMA, è venuto a visitare la Fondazione, e mi ha chiesto come si mantiene da un punto di vista finanziario. Io gli ho risposto: 50% con questo (mostra il braccio sinistro, n.d.r.) e l’altro 50% con questo (mostra l’altro braccio, n.d.r.).
Quali sono le tue fonti di ispirazione?
Sono molti gli artisti che stimo e studio, Brancusi, Michelangelo. Penso alla Pietà Rondanini…Perché ha questo braccio piegato? Io lo so, perché me lo ha detto Michelangelo in persona, io e lui ci parliamo spesso, forse lui lo ignora (ride, n.d.s.) E’ la materia che lo afferma: nella composizione iniziale il Cristo cadeva in avanti e la Madre lo afferrava. Michelangelo ha trovato una crepa nel marmo proprio all’altezza della spalla ed è rimasto senza materia per cui ha dovuto cambiare l’impostazione. L’opera ne è stata completamente stravolta: ma, ripeto, è stato un obbligo imposto dalla materia, e io ho capito qual è stato il processo creativo del Maestro.
Lo scultore ha un vantaggio: dopo aver lavorato centinaia e centinaia e centinaia di tonnellate di marmo, segreti non ce sono più. Il marmo me li ha raccontati tutti: ma io gli ho consegnato la mia vita.

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Courtesy photo by Roberto Perugini

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