Se c’e’ qualcosa da capire ancora, ce lo dirà
se c’e’ qualcosa da imparare ancora, ce lo dirà
sembra ritornare alla mente questo ritornello della canzone popolare, pensando alle opere che sono state esposte fino all’8 gennaio nella sala Giolitti di Camera, Centro Italiano per la Fotografia. Quella subito a sinistra, attraversato lo spazio della Leica, spesso difficile da trovare. Difficile come le 21 opere di Boris Lurie, fondatore del movimento NO!art mai viste prima in Italia raccolte per questa mostra titolata Adieu Amérique. Sotto la cura attenta di Filippo Fossati è stato possibile conoscere il lavoro dell’artista realizzato principalmente tra gli anni ’50 e ‘70, organizzata con il supporto della Boris Lurie Art Foundation di New York.
Boris Lurie nasce nel 1924 a Leningrado allora Unione Sovietica, e cresce a Riga, in Lettonia. Nel 1941 la nonna, la madre, la sorella e la fidanzatina vengono massacrate dai nazisti a Rumbula mentre lui viene catturato insieme al padre. Sopravviverà quattro anni in vari campi di concentramento. Nel 1945 scappa da Buchenwald e rimane in Germania a lavorare per il controspionaggio dell’esercito americano. Si trasferisce a New York nel 1946 dove comincia a dipingere.
Boris Lurie attira l’attenzione della critica per la prima volta nel 1960 quando, insieme a Sam Goodman e Stanley Fisher, fonda il movimento artistico NO!art con l’obiettivo principale di riportare nell’arte i temi della vita reale, in opposizione ai due movimenti più popolari dell’epoca: l’espressionismo astratto e la Pop Art. Al gruppo aderiscono, tra gli altri, Rocco Armento, Isser Aronovici, Enrico Baj, Herb Brown, Allan D’Arcangelo, Erró, Dorothy Gillespie, Ester Gilman, Allan Kaprow, Yayoi Kusama, Jean-Jacques Lebel, Suzanne Long, Michelle Stuart, Aldo Tambellini e Wolf Vostell.
La maggior parte della critica dell’epoca si schiera contro Lurie e il gruppo della NO!art. Nel 1963, il suo famoso Railroad Collage – che sovrappone l’immagine di una modella nuda a quella delle vittime di un campo di concentramento causa un grande scalpore.
Le opere esposte mostrano un periodo cruciale nello sviluppo del lavoro di Boris Lurie, il passaggio da una pittura di stile realistico- figurativo ad un’espressione più autonoma e personale, che combina fotografie della propaganda militare e commerciale americana del dopoguerra con oggetti e interventi pittorici crudi e violenti. E’ la fase in cui sperimenta materiali e tecniche insolite e originali, ciò lo porta ad emanciparsi dai procedimenti artistici tradizionali. Il tema principale del suo fare è legato alla memoria, sia quella personale, che quella collettiva, costruita e utilizzata per riscrivere la storia.
Scrive in catalogo Filippo Fossati, “…la contestazione di Lurie è manifestamente brutale e cruda…è rivolta ad un pubblico educato a guardare molto e vedere poco ..contro i personaggi e le istituzioni che sono il sistema sociale ed economico del mondo dell’arte ..”
e ancora “l’arte non serve più a svelare arcani.. a ingravidare gli occhi..a mettere al mondo il mondo..a mostrare l’invisibile. In molti casi non serve neppure a veicolare un messaggio. Nulla è rimasto della leggenda come dice il poeta, NO! urla Boris Lurie”.
Eppure qualcosa trafigge lo spettatore e difficilmente scivola via davanti a quadri apparentemente innocui; vedere le foto del lager costruite con controfigure di soldati americani in veste di prigionieri, per documentare e fare la storia con l’ufficialità di riviste come Life e di professionisti dell’obiettivo come Margaret Bourke-White, spiazza e atterrisce, solo un uomo con il passato di Lurie poteva permettersi di giocare a ricomporre la storia e le sue tragedie con queste ballad visive. Per insegnarla di nuovo, per trasmetterla e farla capire e se c’è qualcosa da imparare questa mostra è stata un’ottima occasione.