Miti d’oggi, a «bassa intensità» come li definirebbe Peppino Ortoleva, in grado di creare mode, stili, di dar vita a sogni. Anche gli inquilini della Casa (reale) Bianca non si sottraggono a questo processo, e Jacqueline Kennedy, nel film di Pablo Larraín, magistralmente interpretato da Natalie Portman, ne mette in mostra le contraddizioni più intrinseche e le tensioni nascoste sotto i riflettori.
Sono trascorsi pochi giorni dall’assassinio del 35° presidente degli Stati Uniti e la stampa si presenta all’ex first lady per le dichiarazioni. Un’intervista che fa da cornice a tutto il film e svela – nascondendo – agli occhi dello spettatore, una verità che è il senso di ricerca di tutto il film. Jackie è la donna che ha ‘trasformato’ la Casa Bianca, rinnovandola e aprendola al mondo, specialmente quello culturale: è colei che ha fatto sì che tutto ciò si potesse definire ‘Camelot’.
Ma la tragedia raccontata dal regista cileno, a tratti eccessivamente patetica, sta proprio qui, nell’immagine patinata offerta al mondo attraverso i media della stampa e della televisione, che assumono un ruolo chiave. La loro reificazione è chiara nel backstage della trasmissione televisiva, ma anche nell’intervista al Time: Jackie non piange, né fuma, intaccherebbe la sua identità pubblica, ma sorride ed è fiera.
Ecco allora che la dicotomia tra l’essere e l’apparire, che caratterizza tutte le esistenze dei personaggi pubblici, ritorna come un’onda, facendosi questa volta ancora più labile in occasione del lutto, che è contemporaneamente fatto pubblico e privato. Nel film vengono privilegiati gli ambienti interni e tutto fa emergere il discorso introspettivo della protagonista.
Il ‘suo’ privato è anche il privato dell’America, ma Larraín non si accontenta, e la costringe dietro ai vetri delle automobili, dietro agli specchi portatili a tre ante – per prepararsi ovunque ai palcoscenici – , nel claustrofobico carro funebre, insieme al cognato Robert Kennedy, con il quale è legata da una relazione pubblica e inautentica; negli interni dell’aeroplano di stato, dove si discute per l’organizzazione dei funerali; nella confessione fatta in primissimo piano che – benché si svolga parzialmente all’aperto – evoca un mondo interiore, fatto di coscienza e di segreti. Addirittura, la stretta su Jackie interessa gli stessi miti americani, di cui essa stessa ne è vittima: quello di Lincoln e del suo maestoso funerale, che non si vorrebbe replicare per ragioni di sicurezza.
Jackie, sequenza dopo sequenza, cade in un climax che culmina nella scena del trasloco. Ogni immagine sottolinea la falsità dell’esistenza pubblica nella quale è stata imprigionata. Un’esistenza in affitto, perché il presidente Johnson e la nuova first lady sono alle porte e reclamano lo scettro. Un’esistenza di cui la solitudine è solamente il tratto superficiale, testimonianza di un’assenza profonda che solo una finzione – l’ultimo bicchiere di vino, in abito da sera, nella sala vuota – può illudere di colmare.
Nel presente, al tempo dell’intervista, la scena si tinge di toni freddi e malinconici, offuscati dal fumo della protagonista, anch’esso segreto, celato e invisibile: lo smarrimento esistenziale di Jackie colpisce, tanto da chiedersi se si sia mai sentita ‘a casa’, o se tutto abbia finito per alimentare l’universo mitico di Camelot.
Federico Biggio