Unknown
The blue whale challenge: un gioco macabro, sinistro, pieno di colpi di scena e di continui sfide. Per andare avanti devi “farti del male”, punirti con delle vere e proprie torture fisiche e psicologiche. I giocatori, soprattutto adolescenti, non sanno resistere. In Russia ha mietuto più di 158 vittime. Perché la regola è non fermarsi e concludere: con la morte.
I partecipanti vincono morendo.  E a decidere il posto e la data della tua morte non sei tu, ma quelli che in maniera subdola tessono la tela della tua giovane vita. E tutto proposto in rete per uno scopo concreto. Ammonire? Essere cliccati? Governare e dirigere il modo di pensare dei giovani? Non si sa. Di certo l’ideatore di questo assurdo gioco aveva in mente il completo controllo del loro pensiero e delle loro azioni, il loro annientamento psicologico, la loro totale alienazione e apatia. La loro morte.
The blue whale challenge è una sorta di suicidio assistito, un complotto formale ordito a dovere a discapito della libertà personale dei giocatori. Il curatore del gioco non demorde e chiede sempre; propone e impone ogni giorno sfide più difficili e arditi. La provocazione maggiore – che diventa persino una minaccia –  è  quella finale: perdere se stessi, rinunciare alla propria vita, autodistruggersi. Il tutto ripreso da altri giocatori o amici, che hanno l’ingrato compito di filmare l’atto finale e di caricarlo in rete.
Che cosa sta succedendo? Perché questi giovani hanno ceduto a tale sfida assurda? Perché farsi del male? Che cosa succede quando entra in gioco la competizione? Quali sono le armi da impugnare per riuscire sempre ad essere padroni di se stessi, anche in uno passatempo emotivamente pericoloso?
Qual è l’effetto finale di questo gioco assurdo? Cercare emozioni forti che ti facciano vivere? Provare l’ebbrezza di essere “famosi”,  di essere ricordati per aver fatto qualcosa di veramente “unico”? Punire forse qualcuno? I genitori, la società, gli amici? Sono domande che sorgono spontanee e che mettono in crisi l’intero sistema educativo familiare e sociale.

C’è una serie tv molto in voga ultimamente, che propone lo stesso tema: il suicidio.

Thinteen reason why  (“Tredici” in Italia)  trasmesso su Netflix racconta la fragilità personale di un’adolescente, un’adolescente in cerca di amore e di tenerezza, di un senso alla propria vita. Le tredici audiocassette che lascia per spiegare il suo gesto estremo non sono altro che una richiesta di aiuto. Ma nessuno si rende conto del suo disagio, della sua necessità di essere “unica” per qualcuno. L’unicità è un valore che conduce all’equilibrio interiore e alla felicità. E’ un’arma potente, autentica, che stimola la capacità di desiderare. L’unicità costruisce la personalità e rigetta l’omologazione. L’unicità non riconosciuta provoca diffidenza, noia, morte. Tutti abbiamo bisogno di essere accolti nella nostra unicità, soprattutto i giovani. Perché tutti abbiamo bisogno di essere stimati.

Hundertwasser

Quando la società individualista ha il sopravvento su questa prospettiva di scoperta e di conquista di sé, tutto appare irreale, vuoto, inutile. E allora vince la rete, la voglia di strafare, di annientarsi.
Per superare questo disagio Seneca suggerisce una via di uscita: avere un obiettivo da raggiungere.
La vita, senza una mèta, è vagabondaggio”. Avere uno scopo nella vita, un’ambizione, una passione da coltivare suscita interesse e voglia di vivere. E’ questa la vera vittoria: saper valorizzare quello che siamo nella misura in cui sappiamo essere! Gli adolescenti hanno bisogno di sentirselo dire sempre: “tu vali perché sei”. Avere uno scopo nella vita, un ideale vuol dire anche poter scegliere, condividere, vivere.
Ogni persona dovrebbe poter sviluppare un fascino sensoriale ed emotivo spettacolare, che lasci un segno. Duraturo o passeggero che sia, non importa. L’importante è che ci sia. Perché fa la differenza nella propria vita e in quella degli altri.
Se c’è quest’attenzione, il web non ha potere.
Maria Giovanna Iannizzi

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