Incontriamo il maestro Bruno Martinazzi nella sua luminosa casa che da Piazza Vittorio si affaccia sulla quinta naturale della prima collina, il Po come un dio che tutto osserva, nel suo incessante fluire. Nato a Torino nel 1923 in una famiglia di intellettuali, si laurea in Chimica Pura. Durante la guerra partecipa come partigiano combattente alla resistenza, ed è insignito della Croce di Guerra. Dopo aver frequentato la Libera Accademia d’Arte di Torino e gli Istituti d’Arte di Firenze e Roma esordisce come orafo nel 1954, per poi affermarsi come scultore. Ha insegnato molti anni in diverse istituzioni, in particolare all’ Accademia Albertina di Belle Arti di Torino.
La sua carriera è costellata di molti riconoscimenti internazionali, come la partecipazione e la vittoria del primo premio alla International Exhibition of Modern Jewellery 1890-1961, organizzata presso la Goldsmith’s Hall di Londra nel 1961, forse la più importante mostra internazionale del gioiello d’artista del XXI secolo, a cui sono seguite esposizioni in Italia e all’estero; le sue opere sono conservate nei più importanti musei del mondo.
Con Martinazzi il gioiello, progettazione e materia, è equiparato alla scultura e alla pittura e si fa espressione di una riflessione complessa, che affonda le radici nella ricerca filosofica che da sempre conduce parallela e confluente nelle sue opere. Amante di Platone, grande appassionato della montagna, scrive e disegna quotidianamente, e nel 2013 ha dato alle stampe libri con le sue riflessioni e i suoi ricordi, Ehi Patriota!, La luce, il buio, e Amore e Meraviglia, scritti con acutezza e grazia, che è la cifra principale del suo stile.
Fluente nel racconto, si dona con generosità all’interlocutore, capace, con brevi tratti, di restituire un momento storico, un’opera e il suo contesto, una sua personale visione. Prezioso testimone del secolo scorso, restituisce con intelligenza cristallina la dimensione di un artista capace di leggere la contemporaneità con freschezza, consapevole e umile allo stesso tempo, elemento che rende le sue opere senza tempo. In esse c’è un superamento nella realtà, una tensione al metafisico, aspetto che si ritrova nelle sue sculture come nei suoi gioielli, ricchi di riferimento alla cultura classica, dalla greca alla cicladica. Sono immagini reali, eppure astratte, che appartengono al mondo delle Idee.
Maestro, ci racconta come è nato il suo interesse per l’arte e in particolare per l’oreficeria?
Sin da ragazzo ero interessato alla pittura ma, per compiacere la famiglia che mi sconsigliava la carriera d’artista perché Carmina non dant panem, mi sono laureato in chimica; nonostante ciò ho continuato ad esercitarla nei momenti liberi e a coltivare i miei interessi, pur lavorando in tutt’altro settore, l’industria tessile, che tuttavia decido di abbandonare. Verso i trent’anni mi sono interessato all’arte orafa e ho provato a realizzare alcuni esemplari per l’orafo Capello di Torino: vista la mia predisposizione naturale mi sono iscritto ad una scuola per orafi dove ho imparato la tecnica del cesello.Ho molta facilità di esecuzione con le mani, ho imparato in fretta la tecnica; intanto continuavo a dipingere ma incominciavo a trovare sempre più soddisfazione dal lavoro manuale, per cui mi è venuta voglia di misurarmi con materiali e tecniche diverse dal gioiello; sono dunque passato alla lastre di rame, ho iniziato a piegarle a saldarle: di lì il passaggio alla cera e alla fusione in bronzo è stato breve. A quel punto ho deciso di passare alla scultura lasciando la pittura: si può dire che sono arrivato alla scultura passando dall’oreficeria.
Che rapporto ha avuto negli anni con l’oreficeria, la pittura e la scultura?
L’oreficeria è la dimensione che prediligo, ma la pittura all’inizio non l’ho lasciata completamente, l’ho trasformata dipingendo smalti a gran fuoco su lastre in rame, unendo metallo, pittura e scultura. Tuttavia trovo maggiore soddisfazione nelle tre dimensioni: so quando mi devo fermare, sento il limite nelle mani; nelle due dimensioni è come se potessi continuare a pensare, ad aggiungere, non puoi porti i limiti certi che invece la materia sa importi. Avere chiari i limiti, i confini, per me è libertà. Se non hai chiaro questo non puoi essere libero. Qui c’è il limite: quando togli dalla pietra è un atto irreversibile e se hai sbagliato devi rimediare riallineando le proporzioni; fondamentali quindi sono armonia e proporzione. Talvolta è il caso che ti obbliga a fare la scoperta perché la materia diventa partecipe dell’atto creativo e questo fa capire che bisogna sempre cercare di capire chi è diverso da noi perché nel fare, come nella vita, solo se si riesce a interagire con il diverso può davvero nascere qualcosa di nuovo.
Ho avuto l’appagamento nel lavorare la materia prima grazie alle incisione delle lastre poi con le fusioni in cera persa. Ho quindi scoperto la pietra. Nel ‘68 della contestazione insegnavo al Liceo Artistico di Savona: fu lo scultore Sandro Cherchi, che aveva una cattedra all’Accademia Albertina di Torino, a segnalarmi per l’insegnamento, professione che ho condotto dal 1966 al 1980.
Per coinvolgere gli studenti li ho portato sulla spiaggia a cercare dei sassi che si prestassero ad essere lavorati: erano sassi teneri, e con normali scalpelli da legno abbiamo provato a scolpirli; i ragazzi erano felici di misurarsi con un materiale diverso dalla creta con cui erano soliti modellare: la fisicità della materia ha una sua bellezza, una sua forza.
È piaciuto anche a me, ho cercato pietre più dure, e ho capito che mi piaceva moltissimo misurarmi con i materiali come questo. Sono andato nel laboratorio dello scultore Lorenzoni per apprendere le tecniche più precise. Mi sono misurato anche con le plastiche, insieme agli studenti di Savona abbiamo messo fogli di plastica sui negativi dei calchi in plastilina e su questi abbiamo versato di colpo il gesso: una tensione visibile nella materia, che non è voluta ma che ben rappresenta il soggetto, la carica della Polizia!
Ci racconta l’episodio del suo incontro con l’artista cileno che ha graffittato la sua scultura collocata lungo il Po?
Questo è un episodio molto interessante: ho scolpito una scultura dal titolo Frates tuus, un monolite in granito su cui è incisa la figura di un uomo con la scritta Dov’è Abele fratello tuo?, opera che ho realizzato su invito del Comune e che doveva essere fruibile anche dai non vedenti. È stata collocata lungo i Murazzi del Po ma nel giro di pochi anni è stata imbrattato dai writers, fatto che mi dava profonda tristezza. L’anno scorso arriva a Torino un ragazzo cileno, Hernan Silva, un artista che ovunque va riproduce, come messaggio di pace, il volto di Víctor Jara, cantautore e poeta cileno, vittima della repressione messa in atto dal generale Pinochet.
Hernan si imbatte nella mia scultura, ormai tutta imbrattata, ne dipinge una parte di nero e sopra realizza il volto di Jara. Un giorno con un amico passo per caso e rimango stupito da questo intervento, che mi ha fatto riflettere: io ho realizzato un inno alla fratellanza, questo ragazzo, pur imbrattando la mia scultura, interviene con un messaggio di pace, con felice intuizione: pur non amando i graffiti sui muri ho accolto questo intervento come un contributo dell’Arte, un atto creativo che arricchisce il mio messaggio. Se riusciamo a guardare la realtà in un modo diverso questa può cambiare: io sono stato partigiano. Oggi ha senso essere partigiani di Pace: la globalizzazione stessa ha senso solo se anche la pace diventa globalizzata.
Quindi lei è riuscito a vivere di arte nonostante gli avvertimenti della sua famiglia sulla difficoltà di sopravvivere solo con essa…
Si, sono riuscito anche grazie alla produzione orafa che rispetto alla scultura ha dei costi contenuti sia per quanto riguarda gli aspetti organizzativi che quelli espositivi, e che mi ha dato grandi soddisfazioni in termini di notorietà anche grazie alle presenze due edizioni delle Triennali di Milano, l’XI e la XII, la mostra International Exhibition of Modern Jewellery 1890-1961, organizzata dal grande curatore e critico Graham Hughes, in cui erano esposti alcuni miei pezzi. Dopo questa mostra ne sono seguite molte a livello internazionale, soprattutto in Germania, e alcuni dei miei gioielli, come il bracciale Goldfinger, sono conservati nei più importanti musei del mondo, tra cui il MOMA di New York.
Gli anni ‘70 sono stati piuttosto difficili, l’insegnamento mi portava via molto tempo, nonostante questo sono riuscito ad esporre le mie sculture in diverse gallerie, tra cui quella di Gian Enzo Sperone con una mostra imperniata sulle unità di misura, Metro, peso, vaso, pollice. Dall’inizio degli anni ‘80 ho ripreso a dedicarmi al gioiello con più intensità, a disegnare moltissimo.
Come sono nati i suoi celebri gioielli con dettagli anatomici: la bocca, il dito, il fondoschiena?
Sono nati lavorando la materia, quasi lasciandomi suggestionare da ciò che nasceva tra le mie mani, lasciandomi talvolta guidare dal caso: un taglio della lamina d’oro mi ha suggerito la bocca e poi, da un’altra sezione, ho realizzato un occhio…ho incominciato ad appassionarmi ai dettagli, ai particolari, in cui mantenere un’armonia, un appiglio per vedere l’intero. Io tuttavia non riproduco il vero, è sempre un vero ripensato, mentale, fortemente astratto.
Lei oggi realizza ancora gioielli?
Sì, io oggi disegno, progetto, scrivo anche, ho ancora uno studio in via Po, l’ultima committenza importante di scultura l’ho realizzata pochi anni fa: con gli architetti Gabetti e Isola abbiamo vinto il concorso bandito dalla CEI (Conferenza Episcopale Italiana) per le opere di arredamento artistico da collocare nella nuova Chiesa di Santa Maria in Zivido di San Giuliano Milanese, tra cui l’altare, il crocefisso e l’ambone: sono tre sculture in travertino, realizzate nel laboratorio Cervietti, a Pietrasanta. Negli anni potrei dire che mia tecnica si è affinata, realizzo maquette, l’ultima stamattina…se mi fermo muoio!
C’è un’opera a cui è particolarmente legato?
Le due forze, due pugni chiusi di grandi dimensioni, sculture commissionatami da Umberto Agnelli per il centro direzionale Fiat nel 1978, e lì collocate nel 1983: è stata molto tempo all’ingresso del Centro Direzionale in corso Ferrucci, adesso sono stati trasferiti a Mirafiori. Un’opera di grande impatto ancora oggi.