L’incontro con Jeremy Gobé, giovane artista francese dal prestigioso curriculum, avviene all’interno dell’aula magna dello IAAD, Università per il Design di Torino diretta da Laura Milani, grazie alla preziosa collaborazione tra la scuola e il SeVeC, il nuovo progetto che già dal proprio acronimo (seta-vetro-ceramica) unisce tre musei dell’arte applicata in Piemonte (Museo della Ceramica di Mondovì, Museo dei Vetri e Cristalli di Chiusa di Pesio e il Filatoio di Caraglio).
Il progetto SeVeC, fortemente voluto dalla presidente del Museo della Ceramica di Mondovì, Andreina d’Agliano, e realizzato grazie al bando Musei Aperti della Fondazione CRC di Cuneo, nasce con lo scopo di riscoprire le antiche tecniche dell’arte manufatturiera di eccellenza del territorio piemontese per ripensarle con lo spirito e le competenze della contemporaneità; in questo modo tali conoscenze, filtrate dalla creatività di artisti e designer, possono costituire concrete potenzialità produttive, fornendo ai giovani nuovi sbocchi di lavoro.
Gobé è uno scultore eclettico che si misura fisicamente e intellettualmente con molti materiali differenti e ha raggiunto nell’arte tessile, e non solo, una felice e compiuta esplicitazione del proprio pensiero filosofico e della propria ricerca artistica, traducendola in installazioni di grande impatto. Gobè inaugurerà i workshop di alta formazione del SeVeC e in particolare il corso sui materiali, sul tessuto, sui filati, sulla maglieria jacquard che si terrà al Filatoio di Caraglio dal 2 al 10 settembre. Ai corsi partecipano in media 15 studenti e in questo caso 10 studenti saranno borsisti IAAD.
Andrea Bruno, coordinatore strategico del corso di Textile and Fashion presso IAAD, introduce la lectio di Gobé ad una aula gremita di studenti, articolata come una lunga intervista aperta al dibattito.
Come è nato il tuo interesse per l’arte?
Sono nato in una famiglia di militari di carriera, ho sempre disegnato moltissimo, sin da quando ero bambino, anzi direi da quando ho memoria, ma non ho mai pensato di fare l’artista, infatti ho condotto studi scientifici. Successivamente ho frequentato un anno di architettura ed è stata la prima volta che ho studiato seriamente storia dell’arte; durante le lezioni continuavo a disegnare tutto il tempo, finché un’altra studentessa mi ha chiesto cosa facessi lì e perché non frequentassi una scuola d’arte…
Non avevo mai preso in considerazione questa possibilità, avevo già 22 anni e solo allora ho iniziato a frequentare una scuola d’arte e questo per tre anni, sino al diploma universitario; quando ho terminato dovevo decidere se iniziare a lavorare, specializzarmi o iniziare a essere “artista”…Ma mi ponevo la domanda su cosa volesse dire essere artista e cosa io volessi fare. Ho deciso quindi di smettere di “produrre” – lavoravo e disegnavo giorno e notte incessantemente – e ho vissuto un periodo lontano dall’arte; è stato allora che ho incominciato a lavorare, a vivere una vita normale…
Ho cominciato a interessarmi al fatto che molte aziende tessili del nord della Francia stavano chiudendo: questo aveva delle grandi ripercussioni negative non solo sull’economia locale ma anche sulla vita delle persone che vivevano lì, sulla loro energia: nulla aveva più senso, non sapevano cosa fare dopo diverse generazioni impiegate in questo specifico settore. Sono entrato in contatto con le persone che lavoravano in queste fabbriche, mi hanno parlato della loro storia, mi hanno insegnato le tecniche, mi hanno persino dato del materiale con cui riempivo la mia piccola auto…L’idea è che potevo infondere nuova energia e ridare vita a queste storie grazie alla mia arte.
A questo punto ho capito cosa volevo fare, che tipo di artista volevo essere: sarei diventato una artista che recuperava le storia delle produzioni manuali, anche quelle destinate a scomparire e l’avrebbe “continuata” con la propria creatività.
Rodin, il grande scultore francese, sosteneva che l’artista non crea l’arte, la continua (Un art qui a de la vie ne produit pas le passé; il le continue) Questo è esattamente il mio punto di vista. In queste aziende erano conservati interessanti materiali e la conoscenza di ancora più interessanti tecniche: il mio compito poteva essere quello di apprenderle e donare loro nuova vita.
La tua ricerca tiene conto di molti aspetti differenti: il contesto sociale, la volontà di recuperare materiali e conoscenze, l’importanza del territorio e infine l’atto manuale. Jérémy, puoi parlarci dell’importanza del lavoro manuale nella realizzazione delle tue opere?
La creazione, il prodotto artistico passa dalle mani; la relazione con le gallerie, le mostre, i contesti espositivi possono essere importanti ma non possono diventare fondamentali. Quello che è importante per me è il mio percorso educativo-esistenziale; se vuoi avere successo come artista c’è solo un modo: lavorare, e lavorare duro. Vuol dire che tutta la tua energia deve essere nel lavoro: io non ho assistenti, faccio tutto da solo; il lavoro per me è meditazione, è un’attività intellettuale che può diventare esclusiva, tanto è vero che quando lavoro dimentico di mangiare, di dormire…
La Bellezza va cercata attraverso il lavoro, come un atto meditativo o un allenamento duro. Per me un artista è quello che crea bellezza con le proprie mani, attraverso la sforzo, lo studio, anche la sofferenza, finalizzata però ad una finalità più grande, che è quello del messaggio che vuoi dare.
Le mie opere non devono far pensare tanto al materiale, al fatto che sia realizzato in tessuto, quanto all’oggetto scultoreo in sé. Si comprende quale materiale sia quando lo si osserva da vicino e lo si tocca. In questo caso l’arte non è più astratta, lontana: attraverso l’opera tessile si crea un contatto anche tattile con le persone. Per me è importante che le persone possano toccare le opere, entrare in contatto con loro attraverso il tatto…pensiamo ad esempio che la pura lana è il tessuto che ha più affinità con la pelle umana, sia nelle reazioni al freddo che al caldo, risponde esattamente all’energia del corpo umano. Le persone non devono avere una particolare conoscenza della storia dell’arte, possono leggere le mie opere con diverse chiavi di lettura, la prima è quella sensoriale che è immediata, istintuale, poi puoi leggere i diversi significati culturali e sociali, ma la prima cosa è esprimere e tramettere emozioni, con una giusto equilibrio tra arte concettuale e opera materica, concreta.
Jérémy, usi molti materiali che provengono non solo dalle fabbriche, ma anche dalla natura, dalla strada… ad esempio il corallo.
Sì, ho realizzato diverse installazioni in corallo riproducendone i singoli elementi e ridonando il colore perduto, poiché il corallo “morto”, fuori dal mare, diventa bianco e perde le sue incredibili tonalità. E’ curioso come sia riuscito a reperirlo, il corallo è un materiale protetto il cui commercio è illegale, ma io ne ho scovato una grande quantità al mercatino delle pulci: un materiale difficile e molto bello e anche in questo caso ho pensato di “continuarlo” e farlo diventare sempre più grande: per realizzare l’installazione presentata al Palais de Tokyo ho utilizzato 400.000 di tasselli ad espansione che ricordano nella forma i singoli elementi del corallo. Per la forma ho imitato la Natura ed è interessante vedere la connessione tra forme, natura e geometria…sto pensando alla teoria della Forme di Platone: quando osservi la Natura puoi notare che ci sono sempre semplici geometrie che si ripetono.
Quando si osservano le mie sculture non devi cogliere immediatamente il materiale ma notare in primo luogo proprio la geometria delle forme e osservare come, pur essendo realizzate in modo artificiale, in realtà si riprenda la forma naturale fino a non poter distinguere cosa sia reale da cosa non lo è.
Un altro elemento importante nella tua ricerca è la maglieria. Quest’ultima può essere di recupero oppure appositamente realizzata a telaio; in particolare la lavorazione a jacquard, rappresenta un elemento di stretta connessione con il workshop al Filatoio di Caraglio perché lì esiste un antico telaio per la lavorazione jacquard, sul quale artista e allievi si misureranno.
Uno dei miei lavori più importanti è stato realizzare grandi superfici a maglia; io non avevo mai lavorato a maglia prima, ho cominciato a farlo in maniera totalizzante e mi è piaciuto molto, è un altro lavoro che puoi creare con le mani. Capisco le signore anziane che lo fanno, è un’attività rilassante, ipnotica, anche se ha diversi gradi di difficoltà, come il cambiamento di colore, le complessità crescenti…c’è molta matematica nel lavoro a maglia, molto ragionamento che poi ritrovi nelle macchine che la realizzano.
Nel nord della Francia è sorta la prima azienda a livello mondiale di maglieria dove si realizzava la lavorazione jacquard; è strano che nessuno sappia che anche il primo sciopero della storia moderna sia avvenuto in questa fabbrica, una prima rivendicazione per migliorare le durissime condizioni di lavoro. Uno sciopero che si risolse in modo tragico nonostante fosse assolutamente pacifico. In seguito a questo mi è venuto in mente di realizzare una grandissima installazione in tecnica jacquard, tecnica che si sta perdendo perché tutte le aziende francesi stanno trasferendo le produzioni in Bangladesh, dove accadono i medesimi fatti, secoli dopo, di quelli avvenuti in Francia: difficili condizioni di lavoro a cui seguono scioperi, repressioni, …
Questo lavoro si intitola La liberté guidant la laine, con un chiaro riferimento all’iconico dipinto di Eugène Delacroix che rappresenta la Libertà che guida il Popolo, immagine divenuta simbolo della Rivoluzione Francese. Ho inserito la forma tridimensionale dei gesti del dipinto di Delacroix nel tessuto, in modo tale che emergessero dalle pareti delle forme piene di vita, che evocassero l’energia dei singoli personaggi.
Nessuno dei tuoi familiari ha coinvolgimenti nella moda, tranne una persona molto importante per te, tua nonna….C’è del DNA nella tua vocazione artistica?
Il mio lavoro è sulla trasmissione, sul dare nuova vita al passato. Tutta la mia famiglia è nel campo militare: mia nonna, avendo sposato un militare di carriera, ha dovuto obbligatoriamente lasciare il lavoro, ma prima di allora era una bravissima sarta, famosa nel suo campo, aveva realizzato abiti per la Regina di Inghilterra; di questo non aveva mai più fatto parola con nessuno finché non le ho parlato dei miei progetti; mi ha dunque raccontato che durante la Resistenza, per sopravvivere, realizzava borsette da barattare con cibo e altri genere di prime necessità.
Mi ha dato molto suggerimenti tecnici, abbiamo realizzato borse insieme, e questo mi ha dato l’idea di un nuovo progetto. Come ho detto per me essere artista è creare in differenti materiali, portare vita ed energia in ogni tecnica; è importante anche conoscere le nuove tecnologie ma sempre nell’ottica di poterle usufruire, di non esserne condizionato. Il condizionamento nel comportamento umano è un altro problema che ho voluto sottolineare: ho messo a confronto una video di Charlie Chaplin che tenta di aprire una sdraio senza riuscirci e ho realizzato in parallelo una scultura meccanica pitturata come fosse lignea che, grazie ad un programma computerizzato, imita questi movimenti in una coreografia impazzita. E’ lo stesso cortocircuito che riguarda l’arte e il suo contesto, quando perde di significato perché schiava dei meccanismi di stupire a tutti i costi attraverso le nuove tecnologie.
Dal 2 al 10 settembre partirà il workshop SeVeC con 10 studenti IAAD e a ottobre Torino verrà nominata Torino Capitale del Design 2018. Il lavoro che verrà prodotto nel workshop con gli studenti sarà oggetto della mostra alla Fondazione Pistoletto nelle due giornate del Torino Fashion Design Week, di cui IAAD è responsabile per quanto riguarda la direzione creativa. Puoi parlarci nel dettaglio del workshop?
Un parte del workshop riprenderà l’installazione in jacquard La Libertè guidant la laine, un altro, dal titolo La Propre de l’Homme, sarà su mobili, sedie e oggetti di arredamento di recupero, visti come oggetti emozionali. Sono oggetti decontestualizzati, tutti portatori di una storia, sono intrisi del loro passato, dei luoghi dove sono vissuti prima d’ora; per loro creeremo vestiti e rivestimenti e li fotograferemo e questo costituirà il terzo momento del workshop.
È difficile creare vestiti per questi oggetti, è una combinazione tra tecnica e immaginazione, perché ogni pattern, ogni scelta di colore, ogni forma deve riflettere la personalità dell’oggetto e dare ad ognuno di essi una nuova identità.Un aspetto tecnico riguarda la complessità nell’utilizzare la macchina e realizzare il tessuto, un altro è quello di modellare quest’ultimo e portarlo dal 2D al 3D: è molto complesso rispettare questo passaggio e realizzare rivestimenti su misura. Oltretutto io non taglio, non altero i tessuti, sono uno scultore.
Il mio obbiettivo è il rispetto del passato: dare nuova energia alle opere del passato per realizzare opere del futuro. Noi siamo solo un tappa di questo naturale processo creativo, in costante evoluzione.