Dopo aver fatto tappa a Cuneo per Scrittori in Città, il noto scrittore britannico Geoff Dyer, si concede una serata torinese al Circolo dei Lettori per la rassegna ideata dal Salone del Libro Giorni Selvaggi. L’occasione è legata alla presentazione del libro Sabbie bianche, uscito per i tipi del Saggiatore.
Se c’è qualcuno che sa essere curioso, entusiasta e folle quanto basta per far delle proprie curiosità un mestiere sicuramente quello è Geoff Dyer. Non solo si è conquistato la devozione dei lettori, è riuscito a passare con la stessa lingua elegante e colta attraverso fotografia, scultura, cinema, letteratura, e scritti di natura vagamente autobiografica. Come questo Sabbie Bianche, resoconto di un tour nei luoghi che letture e letteratura hanno spinto Dyer ad andare a vedere di persona e, a restituircene un resoconto mai scontato. Bisogna dirlo. Il libro è lontanissimo da qualsivoglia letteratura di viaggi o reportage. E’ tutt’altro.
Meritava andare a scambiarci qualche parola.
Scriveva Baudrillard: “Uno dei piaceri del viaggio è immergersi dove gli altri sono destinati a risiedere e uscire intatti.” Ritiene di assecondare questa sensazione quando racconta dei posti che visita e di cui racconta?
Beh, dipende. Certo, può capitare che si riparta da alcuni luoghi che abbiamo visitato con un senso di sollievo, ma per rispondere alla domanda preferisco pensare a un’altra citazione, questa volta di Roland Barthes. Guardando la fotografia di una casa in Alhambra [di Charles Clifford, N.d.T.] esclama: “Vorrei vivere lì”. Spesso, quindi, si lascia alle spalle un posto senza quella malvagia soddisfazione che non tu, bensì altre persone sono condannate a viverci. Si tratta di un sentimento che si potrebbe definire “elegiaco” proprio perché non ti è dato di vivere in quel luogo – e non intendo per il resto dei tuoi giorni, ma talvolta neppure per un breve lasso di tempo. Questo per dire che la risposta alla sua domanda non può che essere, purtroppo, la risposta più noiosa al mondo: dipende.
Ritiene che la letteratura, tanto quanto la fotografia, sia in grado di mostrarci luoghi e paesaggi diversi? Possiamo considerare Sabbie bianche una sorta di fotografia letteraria del paesaggio odierno?
Indubbiamente, sebbene letteratura e fotografia abbiano per così dire due “poteri” diversi. La fotografia ha una forza documentaristica, è una citazione del luogo, mentre ciò che mi interessa della letteratura – e con questo non intendo la letteratura di viaggio, le guide – è il suo enorme potenziale di sollecitare una risposta soggettiva e non solo un’interpretazione della geografia. Mi pare, cioè, che quel luogo lo si possa persino trasformare mentre lo si descrive. Un esempio che mi viene in mente è dato da uno scrittore che ammiro molto, D.H. Lawrence: quando si reca in un posto, spinto talvolta da una grande sensibilità, ti permette di provare una sorta di vibrazione. Pensiamo, per esempio, a “Lettera dalla Germania” che ha scritto nel 1924 – e, ripeto, nel 1924 e non nel 1934! – in cui evoca la ferocia che si sprigiona dagli alberi e si diffonde con il vento. Altre volte ci descrive luoghi che definisce “orribili” e “disgustosi”, ma noi sappiamo che si tratta solo della proiezione dei suoi sentimenti più intimi. Possiamo dire, allora, che la fotografia tende a essere più una finestra, mentre la letteratura funge da specchio. Eppure, se c’è qualcosa di davvero interessante, è osservare le fotografie di uno stesso posto scattate da due autori diversi: i risultati sono sempre molto differenti, ecco perché la fotografia, per me, è un medium fantastico. Garry Winogrand una volta disse: “Se fai delle fotografie in Arizona, le foto mostreranno l’Arizona”.
Come immagina il futuro dei giornali cartacei e online, “articoli per un pubblico che non ne vuole proprio sapere”, per citare parte del titolo di un suo libro? Leggeremo e desidereremo ancora l’articolo d’opinione ?
Sono sicuro di sì. Per un verso, registriamo un aumento di articoli di opinione, in Gran Bretagna in particolar modo, dove i giornali riportano sempre meno notizie. A mio avviso una delle grandi virtù di un giornale che, altrimenti, definirei piuttosto noioso, il New York Times, sta nel proporre meno opinioni.
Però, ammetto, guardo con nostalgia a quei giorni quando vivevo a Londra e il mio edicolante aveva una grande pila di The Guardian, mentre oggi se ne trova un paio di copie a dir tanto, perché tutti ormai leggono online. Il bello del giornale nella versione cartacea consiste nel poterlo scorrere una pagina per volta, una dopo l’altra, magari dandoci solo un’occhiata e senza leggerla davvero tutta.
La versione online rende la lettura più difficile in un certo senso, cioè non ti permette di cogliere subito ciò che risiede al centro dell’articolo, è più dispersivo anche perché in superficie ci sono miliardi di opinioni. Ecco, questo sì che è stato un grande cambiamento nel nostro modo di consumare la notizia.
C’è poi un altro aspetto. Scrivo per il New York Magazine, che non è un giornale, né propone soltanto opinioni, e tuttavia ogni singolo pezzo che scrivo è sottoposto a un rigorosissimo processo di fact checking. Viviamo in un’epoca di bufale, le fake news, diventate così popolari con Trump: ogni volta che la notizia non gli garba, diventa automaticamente falsa. Alla fine dei conti, questo impegno a controllare la verità delle notizie è destinata a vincere, perché l’alternativa, ovvero la stampa online, troppo spesso è zeppa di fandonie.
Prima o poi arriveremo a rimpiangere il buon vecchio rigore giornalistico proprio perché ci ripara dai pericoli.
Offro un piccolo esempio: quando è emerso tutto il pandemonio su Weinstein, lui non ha potuto fare altro che arrendersi, a quel punto era un uomo finito. Cos’altro avrebbe potuto fare? Negare? Sono certo che dietro a quelle notizie c’è stato un enorme lavoro di ricerca per garantire la verità dei fatti che hanno portato all’accusa. E si tratta di operazioni che richiedono molto tempo e questo, credo, è il segreto del giornalismo.
Traduzione di Daniela Fargione