Paesaggio Costruito. Nuove figurazioni tra paesaggio e architettura
Tra le tematiche più scottanti e ritornate con pre-potenza al cospetto del presente è certamente il significato di paesaggio; di come l’uomo lo pensa, lo edifica, lo piega al suo desiderio e da quanto ne rimane soggiogato o asservito alla sua silenziosa ieraticità millenaria. Capire cosa cerca l’uomo del secondo millennio quando allunga lo sguardo sul presente, sulle cose, percorrendo il profilo di quando ha intorno a sé, provare a individuare quali sensazioni ne riceva questo è il grumo di domande a cui ogni epoca prova a intessere un possibile responso: nelle scienze come nelle arti.
Chissà se il protagonista del presente si sente collocato nel punto giusto, allo zenit di un possibile giudizio su quanto lo circonda o piuttosto sperduto in un punto imprecisato, in cammino su un sentiero che non prospetta la meta, che non chiarisce il percorso e disarma cognizioni e certezze. Il segreto di questo impasse è tra i punti chiave della mostra che due artisti torinesi sono stati chiamati a esplorare con le loro opere.
“Paesaggio Costruito” è il titolo finestra che si apre su di un panorama che riassume una possibile realtà fatta di elementi naturali, geometrici, poeticamente possibili e impossibili. Le opere emergono e si impongono per forza di colore e di grande dimensione; l’intrinseca, inattesa bellezza che le definisce si strofina sul visitatore, sul suo guardare sospeso, invitandolo ad un viaggio verso cose mai viste e palesemente famigliari.
Con la mostra “Paesaggio costruito” a mia cura, si vedranno infatti, in quell’hortus conclusus dettato dal perimetro delle tele così simili ai giardini medievali di monasteri e conventi, il pensiero del e sul paesaggio che trova forma, prospettiva e categoria contemporanea nell’ambito pittorico.
Le opere, che convergono sull’idea di paesaggio, della sua fragilità, della sua forza, del suo divenire, presentano ciò che l’uomo ha costruito, immaginato o in cui si proietta dentro ad un orizzonte che sfuma verso un’indefinita lontananza, trattato dai due artisti coinvolti con diversa temperatura e climax.
Sicuramente pesano le urgenze ecologiche e gli abbandoni, a metà tra rovine e resti, che segnano un momento di indeterminatezza storica dove il passato è presente ma difficile da precisare, danno carattere e vivido colore ai lavori di Diego Pomarico. In contrappeso Guido Bagini predilige una lucidità formale, grafica e prospettica intrisa di una metafisica che sa distendere spazio e immaginazione, indicando un confine o un limite che protegge dall’illimitato mentre lo evoca.
Come antropologi della contemporaneità artistica Pomarico e Bagini entrambi torinesi, ben si inseriscono nel flusso cosmopolito suggerito dall’Eracliteo tutto scorre, una temperie dettata dal nome scelto dalla galleria per seguire i tempi e accompagnarsi a loro. In galleria, oltre 20 opere, alcune di grandissimo formato, costruiscono un canto a due voci diversissimo per impatto e sonorità visiva, appoggiato ad un basso continuo comune che è quello delineato dalla domanda estetica di riuscire a rappresentare un tema che sempre desta vivo interesse. Il luogo fisico in cui edifichiamo, tra pensiero, architettura, presenza e mutamento il nostro passaggio temporale.
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