Se c’è qualcuno che sa viaggiare in solitaria, fuori dalle rotte già battute e osa proposte di pregio senza curarsi, giustamente, di quanti biglietti si staccano, questa è la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli.
Questa volta fa approdare da oltreoceano una deliziosa mostra dal titolo “Frank Lloyd Wright tra America e Italia, a cura di Jennifer Gray.
Frank Lloyd Wright, Richland Center, 8 giugno 1867 – Phoenix, 9 aprile 1959, è stato tra i più influenti architetti del XX secolo. Nel 1939 espresse il suo pensiero nel libro Architettura organica, un testo determinante, dove l’armonia tra uomo e ambiente, natura trovava un equilibrio inedito interconnesso e finito appunto organico. “Per Architettura Organica io intendo un’architettura che si sviluppi dall’interno all’esterno, in armonia con le condizioni del suo essere, distinta da un’architettura che venga applicata dall’esterno”
Attraverso fotografie, oggetti, cataloghi, litografie e disegni originali, la mostra esplora il pensiero di Wright in merito all’architettura organica a partire dal suo primo soggiorno in Italia nel 1910 fino alla sua ultima visita nel 1951, portando l’accento sul suo coinvolgimento nel dibattito architettonico, urbanistico e paesaggistico italiano. Il percorso si sviluppa attraverso alcune sezioni che esplorano le differenti tipologie di edificio – case, musei, uffici e grattacieli – dove opere iconiche come Fallingwater e il Guggenheim Museum di New York sono presentate insieme a progetti meno noti.
Durante un lungo viaggio in Europa, nel 1910 Wright trascorse sei mesi a Fiesole, vicino a Firenze, dove elaborò i temi trattati nel suo saggio “The Sovereignty of the Individual in the Cause of Architecture”, introduzione a Ausgeführte Bauten und Entwürfe von Frank Lloyd Wright, una pubblicazione artistica di litografie che illustravano i suoi principali progetti architettonici realizzati fino ad allora. Wright scrisse che in Italia non vi è prova più grande di un felice abitare. I palazzi, i dipinti e le sculture sembrano “nascere come fiori al lato della strada e cantare la loro esistenza”.
I temi di architettura, democrazia e natura illustrati in questo saggio sarebbero diventati un interesse costante per Wright, lo avrebbero accompagnato per tutta la vita e avrebbero costituito un elemento di coesione per molti architetti italiani nei decenni che precedettero e che seguirono alla Seconda guerra mondiale.
Proprio a Torino, il 21 gennaio 1935, Edoardo Persico – il direttore antifascista di Casabella – tenne una lezione in cui Wright fu assunto ad arbitro della libertà, dell’individualismo e della diversità, segnando l’avvio di un impegno decennale a sostegno della teoria dell’ architettura organica di Wright e l’inizio della sua risonanza nella cultura italiana. All’indomani della guerra, Bruno Zevi pubblicò il suo fondamentale testo Verso Un’Architettura Organica (1945), il quale – a causa della carenza di carta – includeva una sola immagine di copertina: Fallingwater, la rivoluzionaria casa di Wright sospesa su una cascata a Bear Run in Pennsylvania.
Nello stesso anno fu fondata l’Associazione per l’Architettura Organica (APAO), che vide Zevi protagonista e che servì da manifestazione formale dell’esistenza di una scuola di architettura wrightiana in Italia. Questa costellazione di eventi suggerisce che nell’Italia del Dopoguerra l’architettura organica di Wright abbia rappresentato quell’ideale di libertà e democrazia che architetti e critici italiani auspicavano di perseguire nella ricostruzione del Paese.
Nel 1951, quando Frank Lloyd Wright ritornò in Italia per accompagnare la sua mostra itinerante Sixty Years of Living Architecture fu celebrato come visionario dell’architettura moderna e della politica democratica.
La mostra si apre con una sezione dedicata alle Prairie Houses progettate da Wright all’inizio del XX secolo e che probabilmente costituiscono uno dei suoi più importanti e noti contributi alla storia dell’architettura moderna. Le Prairie Houses sono illustrate principalmente attraverso una selezione di litografie del portfolio Wasmuth, una raccolta di oltre cento tavole – alcune arricchite con dettagli in inchiostro dorato e a pastello – che Wright completò durante il suo primo viaggio in Italia nel 1910.
Due dei temi principali delle teorie di Wright sull’architettura organica avevano a che fare con la natura dei materiali e con la relazione tra un edificio e il suo ambiente: se nelle Prairie Houses viene esplorato il legno come materiale da costruzione e le praterie del Midwest come un paesaggio, negli anni Venti Wright – che stava lavorando in California – si sente incoraggiato dal clima e dalla geografia del deserto americano a sperimentare l’utilizzo del cemento.
La seconda sezione della mostra illustra proprio una serie di esperimenti nella progettazione di edifici, alcuni realizzati altri no, che Wright ha condotto a partire dal blocco di calcestruzzo. Colare il cemento in blocchi ha permesso a Wright di conferire una forma a questo materiale amorfo, per il quale spesso ha utilizzato stampi appositamente progettati per imprimere motivi ornamentali sul calcestruzzo, che ha avuto l’effetto di fondersi con la vegetazione circostante e di giocare con la luce naturale della regione .
La terza sezione è dedicata ai progetti rivoluzionari degli anni ’30 – Fallingwater, Johnson Wax Building e Wingspread, per citarne alcuni – amati da architetti e dal grande pubblico e che nel 1938 gli valsero copertina di Time magazine. Un decennio cruciale, durante il quale Wright sperimentò una sorta di rinascita personale e professionale dopo alcuni anni di oscurità e che lanciò la seconda parte della sua carriera che si sarebbe conclusa solo alla sua morte nel 1959.
I grattacieli furono per Wright l’ossessione di una vita, fin dai suoi inizi ai tempi della collaborazione con lo studio di Louis Sullivan a Chicago. Li progettò per tutta la sua carriera, la prima volta nel 1905 e l’ultima nel 1956, ma solo due furono realizzati. La quarta sezione della mostra esplora una selezione dei suoi progetti di grattacieli che prevedevano l’impiego del taproot system, a cui giunse alla fine degli anni ’20 e che prende il nome dal sistema di radici di alcune specie di piante – elemento indicativo di come Wright guardasse alla natura anche quando progettava un edificio di tipo urbano.
La quinta sezione della mostra esamina una selezione di progetti pubblici e urbani di Frank Lloyd Wright: accanto a icone come lo Unity Temple e il Guggenheim Museum, sono presentati progetti meno noti come quello per un planetario, un centro governativo e un massiccio sviluppo urbano a uso misto. Per quanto Wright concentrasse le sue energie sulla casa unifamiliare egli condivise teorie sulla comunità, lo spazio pubblico e le città, sostenendo che un equilibrio tra privato e pubblico era essenziale per la democrazia. Inoltre, proprio per la loro natura pubblica e urbana, la maggior parte di questi progetti furono particolarmente pertinenti alle discussioni postbelliche sul futuro delle città e delle società in Italia e altrove.
La mostra si conclude con la sezione dedicata a Frank Lloyd Wright e l’Italia, dove il dibattito architettonico negli anni Quaranta e Cinquanta viene esplorato attraverso una selezione di fotografie, lettere e cataloghi, insieme all’esame dell’unico progetto – mai realizzato – ideato da Wright per l’Italia: il Masieri Memorial (1951-55), pensato per il Canal Grande di Venezia. Un progetto nato al fine di commemorare uno dei suoi discepoli italiani, Angelo Masieri – morto tragicamente in Arizona mentre stava completando un grand tour dell’America per far visita e lavorare con Wright – e che, nella combinazione di modernismo e di forme e materiali tradizionali veneziani, fu un vero e proprio saggio sugli scambi culturali tra Wright e l’Italia. Viene inoltre documentata la grande mostra Sixty Years of Living Architecture del 1951 che celebra la sua carriera e viene incontro al crescente interesse per la sua architettura da parte di progettisti, critici e storici italiani come Bruno Zevi e Carlo Scarpa.
La mostra è presentata dalla Avery Architectural & Fine Arts Library, Columbia University; in collaborazione con la Miriam & Ira D. Wallach Art Gallery, Columbia University.