Un singolare, prolifico, elegantissimo intellettuale nella prosa e nella conversazione è stato premiato a Torino con una cerimonia a cui è seguita una lectio magistralis. Vincitore della sezione “La Quercia”, dedicata a Mario Lattes, terza edizione del Premio Bottari Lattes Grinzane, con il libro L’Ingegnere in blu (Adelphi), dedicato a Carlo Emilio Gadda, opera dimostratasi nel corso del tempo meritevole di apprezzamento di critica e pubblico dedicata a Mario Lattes.
Alberto Arbasino classe 1930, scrittore, saggista arguto, giornalista, tra i protagonisti del Gruppo 63, in una camera d’albergo del centro attende con azzurrognola e pacata condiscendenza il rito delle interviste. Riceve in giacca e cravatta blu, come il suo Ingegnere, in una piccola stanza accogliente, le luci accese, discrete, incorniciano l’incontro di una pastosità quasi neoclassica; un buon rimedio per proteggersi dalla luce brillante e gelida che fredda le strade della città di buon mattino. Cortese, appena curioso, accoglie le domande come spunto per rivisitare temi già pensati, argomenti indagati in passato e riallaccia subito il filo tra opinione e ricordo.
Cosa vale la pena oggi di leggere o guardare?
Guardo con attenzione una quantità di cataloghi di mostre d’arte, e poi leggo o rileggo, qualche volta solo per tappare i buchi della memoria, i grandi classici del ‘900; senza la necessità di tenermi aggiornato, quell’aggiornamento vagamente inutile; l’aggiornamento di ieri per l’oggi non vale.
Il ‘900 pare aver interpretato in modo quasi preveggente la società attuale, la sua incapacità di vivere una realtà determinata, statica, impossibilitata a darsi una struttura, un corpo unitario.
E’ sempre stata composta da due corpi, Guelfi e Ghibellini, Capuleti e Montecchi già allora, in una città piccola come Verona. Siamo sempre su fifty fifty, ad un certo punto ci si domanda se non sia nel carattere degli italiani.
Ma questo ci aiuta?
No, per nulla; si sa che Guelfi e Ghibellini ci saranno sempre.
Per intenderci, quando Orson Welles diceva che “in Italia hanno avuto guerre, terrore, assassini, massacri e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo ed il Rinascimento, mentre in Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia e hanno prodotto gli orologi a cucù”, forse aveva ragione?
Forse, però se Orson Welles avesse comprato in Svizzera i disegni di Paul Klee, allora costavano pochissimo, avrebbe avuto una vecchiaia più prospera. Invece lo si vedeva tutte le sere in Via Veneto prendere solo un caffè, spesso con Farouk, l’ex re dell’Egitto.
E di questa città, Torino, che ricordo ha?
Calvino, soprattutto Italo Calvino. Avevamo degli ottimi rapporti, ci vedevamo in via San Massimo, in una trattoria, per parlare di libri. Ricordo bene quando mi diceva, riguardo al mio primo libro, una serie di racconti, che un libro deve essere sotto le duecento pagine, diversamente non viene letto ne recensito.
Ho ricordi molto belli di Calvino, dei suoi consigli, allora avevo ventisette anni e sosteneva che se il primo libro va bene, sul secondo sono tutti pronti con il fucile in mano per spararti. Mi incitava a non aver timore, perché nel secondo libro ci sarebbe stato tutto quello che era stato escluso dal primo. All’epoca uno scrittore ventisettenne non lo si poteva inquadrare come esordiente, già troppo adulto, così mi inserì in una collana. Oggi a quell’età si è ancora dei bambini, a noi veniva chiesto di divenire adulti molto presto.
Come si concilia l’attività letteraria con il giornalismo, bisogna scindere i mondi?
Credo che bisogna avere un linguaggio solo, avere diverse scrivanie, diversi linguaggi è praticamente impossibile; si deve provare a trasferire uno stile nei libri come negli articoli, cosa sempre più difficile oggi. Ci si rivolge a lettori, destinatari, che sono sempre “minori” e non solo di numero. Oggi ci si deve adeguare ad un modello molto facilitato, se dovessi debuttare adesso, con la mentalità di allora, non so come farei.
Un singolare, prolifico, elegantissimo intellettuale nella prosa e nella conversazione è stato premiato a Torino con una cerimonia a cui è seguita una lectio magistralis. Vincitore della sezione “La Quercia”, dedicata a Mario Lattes, terza edizione del Premio Bottari Lattes Grinzane, con il libro L’Ingegnere in blu (Adelphi), dedicato a Carlo Emilio Gadda, opera dimostratasi nel corso del tempo meritevole di apprezzamento di critica e pubblico dedicata a Mario Lattes.
Alberto Arbasino classe 1930, scrittore, saggista arguto, giornalista, tra i protagonisti del Gruppo 63, in una camera d’albergo del centro attende con azzurrognola e pacata condiscendenza il rito delle interviste.
Riceve in giacca e cravatta blu, in una piccola stanza accogliente, le luci accese, discrete, incorniciano l’incontro di una pastosità quasi neoclassica; un buon rimedio per proteggersi dalla luce brillante e gelida che fredda le strade della città di buon mattino.
Cortese, appena curioso, accoglie le domande come spunto per rivisitare temi già pensati, argomenti indagati in passato e riallaccia subito il filo tra opinione e ricordo.
Cosa vale la pena oggi di leggere o guardare?
Guardò con attenzione una quantità di cataloghi di mostre d’arte, e poi leggo o rileggo, qualche volta solo per tappare i buchi della memoria, i grandi classici del ‘900; senza la necessità di tenermi aggiornato, quell’aggiornamento vagamente inutile; l’aggiornamento di ieri per l’oggi non vale.
Il ‘900 pare aver interpretato in modo quasi preveggente la società attuale, la sua incapacità di vivere una realtà determinata, statica, impossibilitata a darsi una struttura, un corpo unitario.
E’ sempre stata composta da due corpi, Guelfi e Ghibellini, Capuleti e Montecchi già allora, in una città piccola come Verona. Siamo sempre su fifty fifty, ad un certo punto ci si domanda se non sia nel carattere degli italiani.
Ma questo ci aiuta?
No, per nulla; si sa che Guelfi e Ghibellini ci saranno sempre.
Per intenderci, quando Orson Welles diceva che “in Italia hanno avuto guerre, terrore, assassini, massacri e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo ed il Rinascimento, mentre in Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia e hanno prodotto gli orologi a cucù”, forse aveva ragione?
Forse, però se Orson Welles avesse comprato in Svizzera i disegni di Paul Klee, allora costavano pochissimo, avrebbe avuto una vecchiaia più prospera. Invece lo si vedeva tutte le sere in Via Veneto prendere solo un caffè, spesso con Farouk, l’ex re dell’Egitto.
E di questa città, Torino, che ricordo ha?
Calvino, soprattutto Italo Calvino. Avevamo degli ottimi rapporti, ci vedevamo in via San Massimo, in una trattoria, per parlare di libri. Ricordo bene quando mi diceva, riguardo al mio primo libro, una serie di racconti, che un libro deve essere sotto le duecento pagine, diversamente non viene letto ne recensito.
Ho ricordi molto belli di Calvino, dei suoi consigli, allora avevo ventisette anni e sosteneva che se il primo libro va bene, sul secondo sono tutti pronti con il fucile in mano per spararti.
Mi incitava a non aver timore, perché nel secondo libro ci sarebbe stato tutto quello che era stato escluso dal primo. All’epoca uno scrittore ventisettenne non lo si poteva inquadrare come esordiente, già troppo adulto, così mi inserì in una collana. Oggi a quell’età si è ancora dei bambini, a noi veniva chiesto di divenire adulti molto presto.
Come si concilia l’attività letteraria con il giornalismo, bisogna scindere i mondi?
Credo che bisogna avere un linguaggio solo, avere diverse scrivanie, diversi linguaggi è praticamente impossibile; si deve provare a trasferire uno stile nei libri come negli articoli, cosa sempre più difficile oggi. Ci si rivolge a lettori, destinatari, che sono sempre “minori” e non solo di numero. Oggi ci si deve adeguare ad un modello molto facilitato, se dovessi debuttare adesso, con la mentalità di allora, non so come farei.
Edmondo Bertaina