“Dolce guida e cara”
Specificità e complementarietà con l’uomo. La donna, parafrasando un verso del XXII Canto del Paradiso dantesco, diviene “dolce guida e cara”, perché riflette sempre la bellezza e la grazia nelle azioni concrete e speciali della sua femminilità. E soprattutto attraverso il valore incomparabile dell’amabam amare (ho amato soltanto l’atto di amare) rivela l’imperscrutabile e inaccessibile destino della vita umana.
Come ogni anno la ricorrenza dell’8 marzo risveglia le conseguenze della verità sull’uomo e la donna, che sono insieme prima di incominciare a fare cose insieme. Più introspettiva dell’uomo, la donna esprime il suo essere e la sua libertà nell’atto di amare, di esistere per l’altro, attraverso le dinamiche coraggiose del servizio e dell’abnegazione, nei ruoli quotidiani che riveste, per un bene “altro” che non sia solo il suo.
A volte è necessario ricordare questo suo atteggiamento magnanimo totalmente gratuito, perché è alla base di ogni relazione affettiva costruita, nutrita e protetta, che man mano diventa occasione ed espressione di unicità.
Non è facile capire sempre questo suo complesso e profondo modo di essere, perché a molti la generosità fa paura: fa nascere conflitti, litigi, disagi, accuse. A volte, in un amore “malato”subentra il diritto subdolo ed ingannevole di controllare, persino le parole dell’altro – in questo caso della donna – di deriderla e maltrattarla, di offenderla ed umiliarla.
Ma l’amabam amare non presuppone il possesso o l’aggressività, lo sgomento o la paura. Al contrario è fonte di stupore, di libertà e persino di uguaglianza.
La verità dell’essere umano, il suo Principio (quello che gli Antichi chiamavano arché) e la sua dignità non risiedono nell’atteggiamento o giudizio di un uomo; ma sono più profondi e irraggiungibili: eterni ed intoccabili. L’uomo può danneggiare ma non distruggere, dominare ma non possedere.
La violenza è inconcepibile in tutte le sue forme e dimensioni. E fino a quando l’uomo non sarà cosciente di se stesso, cioè non saprà chi è, non potrà accettarsi ed autodefinirsi. In quest’operazione dovrà essere aiutato, però, da chi già sa incontrare ed accogliere l’altro: la donna.
Pensare l’8 marzo in modo diverso, solo come rivendicazione di diritti o necessità di prevaricazione significherebbe perdere o svilire la propria identità, l’essenza stessa della propria soggettività.
Il libro della Genesi parla del canto di Adamo, alla vista di Eva. Non c’è letteratura più elevata, al di là di ogni credo religioso che esalti il valore dell’identità umana. E’ il canto delle persone che si scoprono, si incontrano e di accettano reciprocamente.
E’ l’essenziale punto di partenza dell’agire personale (agere) per l’amore e la conoscenza. Grazie a questa forza dell’essere, la donna è autosufficiente ed esprime più dell’uomo qualcuno che accoglie. Per questo, nella sue continua e presente premurosa sollecitudine, diventa dolce guida e cara. Diventa dono.
Il dono che non nasce dall’agere dell’uomo (dall’amarsi e conoscersi reciprocamente) è un prodotto del suo facere. Ma colui che solo “facit”, né accoglie né fa un dono. Per questo manipolerà sempre e non potrà mai accettare la donna nella sua totale femminilità. Seduzione, sfruttamento e distruzione del femminile saranno i suoi soli obiettivi malvagi. Come quelli del Faust di Goethe con Margherita: annientamento del bello femminile, ma anche continuo smarrimento nella “selva oscura”.
Alla luce di ciò che conosciamo, sentiamo e vediamo è sempre più impellente, quindi, riscoprire il valore dell’identità femminile, che non dipende da un’ipotesi o da una decisione arbitraria, ma è un qualcosa di “infinitamente più”: più cura, più attenzione, più rispetto, più sana passione, più condivisione, più riconoscenza e dolcezza, più amore condiviso.
Maria Giovanna Iannizzi