Dialogando con Agostino Arrivabene.
“In fondo alla pianura Padana Agostino Arrivabene. Che vive in una vecchia tenuta padronale nell’estetica perfetta di un decadentismo sofisticato”
Con queste parole il compianto Philippe Daverio introduceva la puntata dedicata al pittore nella sua impareggiabile trasmissione Passepartout. Era il gennaio del 2011.
A distanza esatta di dieci anni dalla visita di Daverio, abbiamo ripercorso lo stesso viaggio fino alla casa studio di Agostino Arrivabene. Ad accoglierci, sin dalla soglia, il suo garbo innato e, lo spettacolo abbagliante della sua pittura.
Classe ’67, nato a Rivolta d’Adda, Cremona, ha al suo attivo un ricchissimo numero di esposizioni nazionali e internazionali, premi prestigiosi ed è un protagonista riconosciuto della scena artistica contemporanea.
Le pitture possono presentarsi come una sorta di grande accademia di teofanie interiori o il resoconto figurativo dei viaggi di un moderno Ulisse in pellegrinaggio nelle profondità dell’immaginazione.
Che cosa rappresenta per chi sceglie questo tipo di mestiere il rapporto con la società e il suo immaginario.
La mia casa uno è uno schermo, un’architettura già presente ma ri-costruita e giustapposta per divenire un angolo di difesa, nei confronti dell’attuale società che vivo; dove faccio fatica a identificarmi, perché non collima con un mio sguardo alla continua ricerca del bello e del divino nel quotidiano. Il vivere è condizionato da potere, frivolezze, atteggiamenti e situazioni vuote, che sono lontane dalle mie urgenze.
A differenza della mia casa dove gli oggetti, l’atmosfera, i libri e la mia pittura, costituiscono quell’humus necessario per vivere.
Nella tua risposta hai citato, due temi fondamentali, la pittura, il divino. Due elementi che forse sono un ponte.
Il divino entra nella mia vita, in un momento molto particolare. E’ stato un istante che mi da motivo di percepire il mistero, che ha disegnato l’azione di questo avvenimento, un risvolto una speranza. Dettato dalla perdita di un legame forte come quello con la propria madre quando si è bambini; ti pone si da subito nella condizione di affrontare il mistero della morte non più come un tabù ma appunto come un mistero.
Attualmente prevale il tabù e raramente si apre l’occasione di una indagine. Resta qualcosa di inaudibile.
Ossia il chiedersi che senso ha il vivere e che senso ha la morte, se c’è una speranza dopo, è una domanda che può essere riempita. La morte che ti priva di un affetto, l’incontro con la morte, è l’occasione per indagare l’identità della divinità.
Da bambini stavamo in casa, con la nonna, cattolica fervente; recitava il rosario tutti i giorni, si apriva così l’immagine di Dio l’immagine della chiesa, dove forse mia madre mi sta aspettando… l’educazione popolare della nonna ha sicuramente influito.
L’urgenza di una domanda è stata l’occasione per tradurla, sublimarla attraverso un portato visionario che si è sviluppato nel percorso pluriennale della mia pittura.
Cosa c’è nella tua pittura e attraverso quali riferimenti scaturisce?
Mi sono reso conto che tutto quello che faccio con la pittura è una costruzione di corpi, fatti di stratificazioni, costruzioni di corpi ossei, epidermici, che rimandano all’eterno, io dipingo non solo uno scafandro che deve aiutare il mio esistere, ma prova a superarmi, per arrivare ai posteri.
In fondo è la richiesta insita nell’artista e nel poeta da sempre. Il mio linguaggio il portato educativo che mi ha fatto arrivare qui nasce da un incontro teofanico.
Quando vedo, per la prima volta, in uno sceneggiato in tivù la vita di Leonardo interpretato da Philippe Leroy.
Erano gli anni 70, nessun testo dove poter leggere e studiare, da bambino, il mio primo approccio nei confronti dell’arte avviene attraverso il diaframma televisivo; non il teatro, perché in campagna non si andava a teatro, i primi sceneggiati televisivi che la Rai trasmetteva erano le biografie dei grandi artisti. In quel film su Leonardo mi sono identificato, mi sono visto e riconosciuto.
Poi sono arrivati le pubblicazioni sui maestri del rinascimento, i maestri del colore della Fabbri editori. Avevano immagini grandi, belle, tutte da studiare.
In seguito, la sensazione di fraternità con la vita, quando mi hanno regalato un volume con le opere di Leonardo ho pensato che avevo una strada da perseguire
I miei codici di riferimento sono stati il rinascimento e la pittura romanica. Questa è frutto della chiesa che frequentavo. La chiesa era una riproduzione perfetta di quella di Sant’Ambrogio a Milano: con tutte le sculture mostruose, in pietra grezza, gli affreschi sbrecciati con le immagini dei santi, quella è stata la mia scuola. Poi il tutto ha avuto il suo approfondimento, ma il mio primo imprinting fu quello.
Come si costruisce il proprio gusto estetico?
Il gusto estetico credo sia una forma di intuizione, un bel tessuto lo riconosci subito rispetto ad uno di pessima fattura. lo si vede. La nostra epoca tende a livellare tutto questo, e quindi facciamo fatica a capire il taglio di un buon abito, oppure il valore di un gilè degli anni 60, frutto di un lavoro di sartoria e non industriale.
Per quanto il gusto molto mi è stato dato anche dalla lettura, ricordo due testi fondamentali: Il ritratto di Dorian Gray, con cui entro in contato con l’idea del dandy decadente e il romanzo A rebour di Joris Karl Huysmans. Insieme a loro aggiungiamo la pittura simbolista di Gustave Moreau.
Poi il cinema, l’incontro con Luchino Visconti il regista dalle ricostruzioni filologiche precise come nel caso del film Morte a Venezia, tratto dal romanzo di Thomas Mann. Questi esempi sono stati determinanti al perseguimento di un gusto che volevo portare nella mia epoca.
Il museo è ancora la casa dell’arte ?
Portare le cose in un museo è come portarle in una tomba, alla fine i musei sono le tombe della storia e degli elementi e delle menti che hanno fondato la storia dell’umanità.
Tutto viene stivato insieme, scritti, sculture, suppellettili.
Non abbiamo posti adatti per riscoprire il gusto della bellezza, avvicinare il pubblico ad un senso dell’esistenza, dove il salto temporale non è così acuto.
Non consiglio un museo, sono stati travisati, la fruizione che viene proposta è molto edulcorata, non è il modo per approcciarsi alla storia e alla memoria, luoghi di culto, popolare, il posto dove l’uomo può ritrovare se stesso è il mondo naturale, come avere una casa in campagna.
Quale è il momento di maggior soddisfazione come artista?’
In questo momento attraverso il confronto con un’opera eterna come la Divina commedia, l’occasione di cimentarmi in questo progetto.
Grazie al destino, movimenti di fili impercettibili, che fanno in modo che avvengano queste interconnessioni, e affiorino quasi dal nulla. Dante era un desiderio che nella mia vita permaneva da lungo tempo.
Molti mi hanno detto che il mio lavoro rimandava a Dante, era sempre stato un rimandare, poi arriva un momento in cui avvengono delle coincidenze temporali fra le persone. Devo rendere grazie a qualcuno che sovrasta quello che accade.
Invece, quello che più ti ha amareggiato in questi anni?
Quello che più mi ha amareggiato e mi amareggerà sempre il modo in cui si crea, affiancato al procedere di un artista, tutto un lavoro di palinsesto a latere, che rappresenta la gestione di un artista.
Tutto l’aspetto generato dal mercato, il potere che il mercato innesca che troppo spesso confligge con l’aura creativa dell’artista. Anche se la vendita è funzionale al lavoro, alla crescita, al sostentamento.