Povertà materiale ed educativa in Europa: il caso limite dell’Italia e il “da farsi”
Il patetismo dei racconti di Dickens, con i suoi orfanelli fuliginosi umiliati dai biechi profittatori del capitalismo nascente, avrebbe dovuto inabissarsi nelle pagine del grande romanzo vittoriano. Invece a rinverdirli in versione 4.0 è stato l’osservatore ONU Olivier De Schutter, dopo due mesi di indagine nelle strade di alcuni paesi comunitari e nei meandri di palazzo Berlaymont.
Con l’asciuttezza dello studioso di rango e una scelta di parole tanto sommesse quanto taglienti, il report di De Schutter (Poverty in Europe, non ancora disponibile ma le cui conclusioni sono state presentate in, conferenza stampa il 29 gennaio a Bruxelles) è un atto di accusa all’inettitudine delle istituzioni comunitarie nell’affrontare il problema della povertà.
L’indagine, tutta da leggere e analizzare, specie per l’aspetto che riguarda il framework istituzionale che impedisce agli stati membri di avviare politiche efficaci sui salari minimi, sulle politiche fiscali, sull’avvio di seri programmi di contribuzione sociale, mette l’accento anche sulla crescente povertà infantile. Se il fenomeno è ragione d’inquietudine per l’intera Europa, l’Italia ancora una volta desta particolare apprensione. Secondo il programma pilota dell’UNICEF e dell’Unione Europea Child Guarantee, nel nostro paese 1,1 milioni di bambini vivono in condizioni di povertà assoluta e, includendo anche la fascia adolescenziale, i minori italiani a rischio di povertà ed esclusione sociale sono il 30,6%, a fronte di una media UE del 23,4%.
In una fase di riflessione programmatica e con la prospettiva dell’arrivo di 16,72 miliardi di euro destinati alla “componente 1” (Potenziamento delle competenze e del diritto allo studio) della Missione 4 del PNRR (Istruzione e ricerca), sarebbe opportuno rafforzare la tutela della prima infanzia declinando in maniera davvero inclusiva gli obiettivi imposti dalla pur imperfetta Europa.
È infatti ben noto il ritardo italiano rispetto ai target di Barcellona del 2002, secondo i quali gli stati membri avrebbero dovuto garantire entro il 2010 la presenza di un minimo del 33% di popolazione infantile nei nidi e nei servizi della prima infanzia (segmento 0-3) e del 90% nelle scuole dell’infanzia (segmento 3-6).
Se oggi tutti concordano sull’esigenza di raggiungere nei prossimi tre anni questi obiettivi – ripresi anche nel PNRR – manca ancora integralmente una riflessione sul “come” farlo. Non basta infatti adottare una prospettiva “quantitativa” ma è necessario privilegiare un’ottica “qualitativa” che garantisca la creazione di una rete infrastrutturale in grado di durare nel tempo e costituire le fondamenta di un nuovo sistema educativo aperto a tutti.
Il problema è cogente. A fronte dei pesanti tagli di bilancio imposti agli enti locali (principali responsabili pubblici del comparto 0-6), negli ultimi vent’anni il segmento è stato appaltato in modo massiccio all’iniziativa privata. Ciò è accaduto in assenza di una normativa chiara circa gli standard minimi dell’offerta. Il risultato è pertanto caotico e fortemente disomogeneo per copertura e proposta didattica, con una distribuzione territoriale in cui si alternano, con percentuali assai differenti, l’offerta pubblica monitorata dallo stato e quella privata che agisce in una condizione di scarso controllo, anche per l’assenza di apparati ispettivi deputati.
Insomma, ci troviamo di fronte a una situazione così parcellizzata che per essere pienamente compresa dovrebbe essere disaggregata e analizzata su scala comunale e, nel caso delle grandi aree urbane, persino subcomunale. Eppure, nonostante la progressiva abdicazione del settore pubblico incapace di investire in nuove strutture per i costanti problemi finanziari degli enti locali, ciò che emerge da diverse indagini – tra cui il mini-report di openpolis del novembre 2020 – è che “i risultati migliori si raggiungono dove l’offerta pubblica è più elevata”, tanto che delle prime 5 regioni italiane per livello di copertura e qualità dell’offerta la Valle d’Aosta, Emilia-Romagna, Toscana, Trentino hanno la più alta percentuale di posti pubblici mentre solo l’Umbria è a maggioranza di offerta privata.
Sul piano dell’azione politica, dunque, quali sono i vantaggi di un massiccio investimento in strutture a governance pubblica; e perché dovremmo privilegiare i primi passi del processo educativo? Ci sono argomentazioni che pertengono a due tipologie di vantaggi, “materiali” e “immateriali”, di pari importanza. Sul piano “materiale”, le strutture pubbliche si inscrivono in una prospettiva di durata: un asilo o una scuola pubblica non falliscono, non scompaiono in tempi di pandemia (come accaduto a moltissimi asili privati) o di forte crisi economica, non sono soggette alle “leggi del mercato” che per definizione privilegiano il guadagno e la sopravvivenza dei proprietari/gestori rispetto alla continuità e qualità del servizio.
Questo punto incide anche sui prezzi delle rette, che in tutti i centri urbani sono assai più alti nelle strutture private (per esempio a Torino si aggirano mediamente sui 500 euro mensili per arrivare a 750-800) che in quelle pubbliche, laddove le prime applicano una politica di ulteriore maggiorazione dei costi qualora si scelga di aderire ad attività extra-curriculari che nelle strutture pubbliche sono integrate nell’offerta formativa.
Basta dunque chiedersi, quale famiglia in stato di povertà può iscrivere uno o due figli a un asilo nido che costa quanto il suo reddito mensile? E si torna così al tema della crescente povertà infantile e della necessità d’integrarla al più presto in un percorso di attiva inclusione sociale. Per quanto concerne i fattori “immateriali” due sono i principali argomenti per l’implementazione della rete pubblica. Il primo afferisce alla composizione sociale dell’offerta privata che, in quanto soggetta a selezione discrezionale da parte delle famiglie, tende a favorire fin dai primissimi anni di vita la creazione di bolle sociali uniformi dalle quali i poveri sono sistematicamente esclusi.
Il problema dell’uniformità sociale non favorisce la cultura della pluralità e tende a impedire l’incontro – se non l’apprezzamento – del diverso, trasformandosi alla lunga in uno dei più seri problemi dell’odierna dialettica democratica che solo la scuola, in tutti i suoi ordini e gradi, è parzialmente in grado di arginare. La seconda istanza investe il ruolo fondamentale dello Stato nella vita dei cittadini.
In un paese in cui – parafrasando l’abusato apocrifo di Taparelli D’Azeglio – dopo centocinquant’anni non si sono ancora “fatti gli italiani”, uno dei pochi servizi in cui lo Stato si incarna facendo percepire la propria esistenza concreta nella vita di tante famiglie, è proprio l’istruzione pubblica (di cui i servizi alla prima infanzia sono base fondativa).
Il ciclo completo dell’istruzione è infatti la sintesi di luogo e tempo in cui si coagula il senso di cittadinanza e s’inoculano i valori della vita democratica. Restituire importanza e dare nuovo fiato all’istruzione pubblica dovrebbe dunque rappresentare uno dei primi obiettivi di qualsiasi programma politico: distinguiamo dunque, con lungimiranza, i settori in cui è giusto confidare nelle regole di mercato da quelli che devono, per loro natura costitutiva e per ragioni di giustizia ed equità sociale, rimanerne rigorosamente fuori. Gli orfanelli di Dickens sono tornati e si aggirano in numero crescente nelle nostre strade. Non dimentichiamoli.
Francesca Salvadori