Nella seconda metà degli anni ’60, il marchio Autobianchi, di proprietà di Fiat, è un po’ un “banco di sperimentazione” per modelli che, l’allora amministratore delegato del Lingotto Vittorio Valletta, ultraconservatore e pugno di ferro, non si arrischiava a produrre col nome della casa torinese; come ad esempio la Primula, la prima vettura a trazione anteriore di Fiat.
E’ proprio vista l’efficacia e la robustezza di quest’ultima che la gamma Autobianchi si allargherà con una vettura più piccola, adatta alle città che stanno cambiando, diventando trafficate e congestionate ma anche alle signore, ai giovani e a chi vuole una seconda auto brillante e agile. Nascerà così la A112: trazione anteriore, motore di 903 cm³ montato anteriore-trasversale, peso contenuto in 590 kg e abitabilità simile alla Fiat 850 ma con dimensioni simili a quelle della vecchia 600. Oltre alla Primula, fra le muse dei tecnici c’è l’inglese “Mini” di Alec Issigonis, prima vettura al mondo con l’architettura “motore trasversale anteriore-cambio in blocco” oggi per lo più diffusa su gran parte delle vetture: non a caso la A112 verrà presto definita “La Mini Italiana”.
Debutta al 51° Salone di Torino, nell’estate del 1969 dove stupisce subito per i vetri grandissimi e le fiancate ben levigate, per i grandi fari circolari e per il tetto piatto: è un qualcosa di mai visto in Casa Autobianchi, tanto che, se fino a quel momento i suoi modelli sono equiparati ai corrispettivi Fiat, la A112 è da subito considerata una Lancia in miniatura (in alcuni mercati verrà perfino venduta col marchio di Borgo San Paolo). Il fatto invece di essere prodotta vicino a Milano, la rende la degna erede della Bianchina, più adatta ai giovani, alle ragazze e alle signore che sognano l’autonomia, piuttosto che ai ceti operaio e piccolo borghese, che preferiscono la 850 e poi la 127. Nel complesso, a prevalere, piuttosto che economicità e praticità (anche se è la prima vettura con cilindrata sotto il litro a presentare il portellone dietro), sono una certa sportività, originalità e compattezza, tutte caratteristiche messe in risalto dalle grandi ruote – per l’epoca e per il segmento – da 13 pollici, poste proprio agli estremi della carrozzeria. Al lancio, la A112 è proposta in un’unica versione curata e accessoriata. Il motore ha 44 CV, che gli permettono di raggiungere i 140 km/h (20 più della mini e ben 45 più della 500) e, in abbinamento al cambio con 4 rapporti corti, accelerazioni fulminee ai semafori e in mezzo al traffico.
Nel 1971 la versione normale sarebbe stata affiancata dalla più curata “E” (diventerà poi Elegant), dotata di tinte bicolore a contrasto (tetto chiaro e carrozzeria scura o viceversa), dettagli argento, cerchi di nuovo disegno, interni più curati con moquette e sedili in panno. È solo l’inizio di una filosofia che avrebbe giovato molto al marchio, quella di creare delle “ammiraglie in miniatura” e che si sarebbe espressa al meglio con la Y10 del 1985, la sua erede.
LA A112 ABARTH
Ma non è tutta eleganza e civetteria. Desio, sede degli stabilimenti Autobianchi, è vicina a Monza, così i tecnici vanno nel celebre circuito (deserto, durante la settimana) a provare le vetture. È qui che l’appetito vien mangiando… l’auto è talmente piacevole da guidare, scattante e quasi sportiva nel suo complesso, che scatta un’irrefrenabile voglia di realizzarne una versione sportiva.
All’epoca a Torino lavora quel geniaccio di Carlo Abarth. È a lui che chiedono di lavorare sulla A112 “peperina”: prima il costruttore austriaco tira fuori dal cappello una bomba da 103 CV (200 km/h!), poi rielabora il motore 903 per portarlo a 982 cm³ e 58 CV: non sono molti ma bastano per trasformare la prima citycar italiana in una piccola bomba… anche perché c’è da fare concorrenza alla solita Mini, che intanto è diventata Cooper.
A consacrarne il mito ci si metterà un’estetica particolarissima: all’inizio l’unico colore disponibile è il Rosso Corsa con cofano, fianchetti, passaruota e coda verniciati di nero opaco, come le vetture da rally. Dentro, i sedili replicano modelli anatomici da corsa, con appoggiatesta saldato e schienale ricoperto da un “sacco” in pelle finta nera, come nero è il resto dell’interno e la corona del volante in pelle, con razze in alluminio. Gli “scorpioncini”, simbolo del marchio Abarth e segno zodiacale di Carlo, sono sparsi su tutta la carrozzeria. Così equipaggiata, la A112 Abarth arriva a 150 km/h.
UNA SAGA LUNGA QUASI 20 ANNI
Che la A112 sarebbe stata un successo si capisce subito ma nessuno prevede la sua permanenza in listino fino al 1987, persino sopravvivendo alla Y10 un altro paio d’anni. Il merito sono le sue doti proverbiali ma anche un ammodernamento costante: nella sua carriera arriveranno versioni per i giovani, come le Junior e versioni più ricercate come le Elegant, Elite e LX (che ha perfino gli alzacristalli elettrici e i sedili in velluto come la Lancia Delta), disponibili in una varietà di colori infinita. In totale saranno ben 8 le diverse serie, caratterizzate dall’avvento dei paraurti fascianti in plastica, di interni più moderni e ricchi, da un’estetica che, alla fine, ha più poco della versione originaria ma il tutto senza mai snaturarne l’anima da cittadina glamour e alla moda, che alla fine mette d’accordo tutti.
Anche la Abarth – sulla quale, nel 1975 assistiamo a un aumento di potenza, (cilindrata di 1050 cm³ e 70 CV), che la renderà ancora più veloce e pepata, come chiedono a gran voce i giovani – rimarrà in listino fino al 1985, anch’essa venendo rinnovata e ammodernata grazie anche a dettagli come stemmi rossi, interni sportivi e cerchi in lega dai disegni moderni.
Non dobbiamo dimenticarci infine, che la A112 Abarth sarà trampolino di lancio per tanti piloti (Attilio Bettega, Giorgio Pianta, Gianfranco Cunico, tanto per citare i più famosi) che troveremo poi successivamente nelle grandi epopee degli sport motoristici tra gli anni ’80 e ’90, prima fra tutte quella dei rally. L’idea è dell’allora DS di Fiat Corse Cesare Fiorio: lanciare un trofeo fra giovani talenti tutti alla guida della stessa vettura (appunto la A112 Abarth), partecipando ai rally veri, quelli del Campionato Italiano.
Luca Marconetti