Da qualche anno la città è divenuta teatro di un esperimento dove sono convenuti amalgamandosi senza mai armonizzarsi fino in fondo, sociologia, arte, utopia e quella complicata, invitante idea di costruire un progetto che non può realizzarsi.
La città è divenuta un atelier e la sua pianta un telo da dipingere, una enorme tavola piatta dove, tentando di appropriarsi del reale o di una parte concreta di esso è avvenuto qualcosa. Il viale, la piazza, la strada, che da catramato oggetto quotidiano, al limite del negletto, è risalito alla superficie dell’attenzione attribuendosi un inatteso potere d’attrazione e di conseguenza di discussione.
L’esperimento, di cui prima, è un disegno in grande scala, in lenta costruzione ma di sorprendente respiro chilometrico di cui ci si è accorti lentamente. Un effetto pittorico dello spazio, un drappeggio sull’epidermide nuda effimero e spiazzante, disteso senza soluzione di continuità tra periferia e centro.
Adesso chiudiamo con le premesse. E sveliamo il mistero.
Torino è il supporto fisico materiale di una delle più grandi, insospettabili, inopinate opere di land art urbana mai realizzate in Europa.
Al pari di quelle realizzate da Christo e Jeanne-Claude, la famosissima coppia di artisti che ha impacchettato palazzi, paesaggi, isole e monumenti in tutto il mondo. L’ultima loro strepitosa installazione in Italia fu quella conosciuta come Floating Piers sul Lago di Iseo: una passerella arancione che si estendeva sulla superficie dell’acqua creando un collegamento tra le località di Sulzano e Monte Isola con l’isoletta di San Paolo.
Anche nel caso cittadino si tratta di un luogo di passaggio. Per essere precisi l’opera è l’originalissimo, estroso fino all’eccentrico, tracciato delle ciclabili.
Fatte di sola vernice bianca le ciclabili si mostrano subito per il loro carattere effimero e affabile, invitanti malgrado il rischio altissimo di essere vittima di automobilisti insensibili, che aprono inspiegabilmente portiere o escono senza attenzione dai parcheggi.
Spesso imprevedibili e deliziosamente inservibili, più sogno che realtà come solo l’arte sa far intuire; suggeriscono ipotesi più che reali percorrenze, svelano scenari di un futuro urbanistico dove monopattini e biciclette saranno dominanti.
Pensate per scolorire assecondando il tempo delle cose che passano come lunghissimi fili di vanitas sul selciato, silenziose e buie come la notte durante la notte, si concedono comprensive ai parcheggi selvaggi di furgoni in consegna e auto in brillio di frecce in quaterna; ospitano come dandy distratti qualche incauto a pedali che gli affida quel riconoscimento della loro funzione, addirittura utilizzandole per spostarsi tra i quartieri.
Improvvido e dolcemente avventato il ciclista che utilizza le ciclabili come fossero vere, magari volando con i pensieri alla mosca disegnata dal giovane Giotto, a bottega da Cimabue, sul naso di un ritratto che il vecchio maestro tentò di scacciare scambiandola per vera, non si accorge di giocare con quest’opera d’arte urbana completamente improbabile e finta, o vera per chi la considera tale e così vuole vederla.
Chi sia l’artefice di questo immaginifico e utopico artefatto è difficile da decifrare, la risposta e la responsabilità, probabilmente pedala nei sogni di quella stessa amministrazione che l’ha autorizzata dimenticandosi, mannaggia loro, di avvertirci.
Il come potrebbero essere o non essere le cose, o come potrebbero essere fatte bene è forse la lezione più importante che possiamo desumere da questa improvida serigrafia artistica che tratteggia la città.
Utilizzare la bicicletta è un gesto gentile, salutare, divertente talvolta. Tutto sta nelle condizioni pensate per il suo utilizzo. Un viaggio a Copenaghen o Rotterdam potrebbe illuminare i pensieri e di conseguenza la strada.