Pasolini, l’ultimo rinascimentale.
Poeta, saggista, pittore, regista, comunista eretico, ribelle, omosessuale: diverso.
Pier Paolo Pasolini è l’ultimo decadente romantico; spalanca la porta solo socchiusa del realismo struggendosi nel mistero della vita e fotografandolo per quello che è, superando il neorealismo e finalmente rinunciando a cambiarlo. Il suo sbocco finale è un prendere atto.
Pasolini è anche l’ultimo rinascimentale, criticato, deriso, non capito, un “ πολύτλας” di odisseana memoria che, come Leonardo e Michelangelo, tocca tutti i campi dell’arte, dal cinema al teatro alla letteratura lasciando la propria impronta, graffiando anziché sfiorare.
Trasporta la merda e il linguaggio comune nella sfera superiore della rappresentazione letteraria, li arricchisce di quell’humus popolare e puzzolente che non sporca trame e personaggi, anzi, li porta in primo piano, finalmente, rivendicandone origini e appartenenza e confrontandoli con le più paludate maschere della commedia umana.
Pasolini sa trasformare la sociologia in poesia, la psicoanalisi in teatro, il malessere politico in letteratura. In “Affabulazione” del ’66 mette in scena sé stesso in una parodia della teoria freudiana e dell’Edipo re. Lui, padre, semidio, chiede al figlio di bruciarlo sul rogo, consapevole dell’irrisolvibilità dell’irrazionale, del mistero della potenza sessuale giovanile, dell’impotenza di fronte al tentativo di vincere, dell’evidenza che a vincere sono sempre i giovani. Pasolini è il provocatore senza calcoli, né compromessi, né prudenza. Questo lo porta ad essere l’uomo nel mirino, circondato da un mare di fango.
Nasce a Bologna nel 1922, dove consegue la laurea, ma dimorerà fino al dopoguerra, con la madre a Casarsa, in Friuli, salvo spostarsi presso varie città del nord Italia, seguendo il padre, ufficiale dell’esercito. Dei suoi colleghi contemporanei, Elio Vittorini e Vasco Pratolini, condivide poco o nulla se non un blando realismo che in Pasolini diventa quasi violento e sfacciato.
La critica accoglie positivamente i suoi primi scritti di poesia, versi in dialetto friulano che presto vorrà abbandonare, ma la società lo bolla diversamente. Nell’arco della sua vita subisce ben 33 processi e colleziona oltre cento denunce.
Marxista convinto che sia l’unica ideologia vicina ai lavoratori, viene espulso dal partito dopo che ad una festa si sparge la notizia che si sia appartato con altri quattro giovani dello stesso sesso. Vince il processo ma non riesce più a vivere il sapore e l’intimità della sua borgata friulana.
Pasolini. A cento anni dalla nascita.
Nel 50 parte per Roma con la madre. Prende alloggio in una casa di uno zio nel ghetto ebraico e da lì parte ad esplorare periferie e borgate; di giorno come professore di scuola media e di notte come cacciatore di esperienze omosessuali. È la Roma del giubileo di pio XII ad un tempo bigotta e pagana, strafottente, devota, bacchettona e sensuale. Appena uscita dalla II guerra mondiale è in continua espansione verso le sue periferie. Lui, borgese, ben vestito, reduce dai furtivi amori friulani, scopre nei ragazzi del Tevere l’amore spontaneo che sarà il punto di riferimento di tutta la sua vita magistralmente raccontata da De Andrè in “Una storia sbagliata”. Si trasferisce a Rebibbia, a tre ore di viaggio, ogni giorno, dal liceo in cui insegna, ma è una scelta consapevole, operata per carpire il senso di una periferia dove riconosce l’umanità allo stato puro: la scopre negli angoli in ogni momento del giorno e della notte, nella vitalità spesso violenta di un eden in via di smarrimento. È impossibile corrompere un analfabeta; è lui stesso a dirlo, dichiarando di preferire chi ha la quarta elementare, genuino e vivo, piuttosto che un intellettuale formattato e costruito a schemi. Tutto questo entra definitivamente nella letteratura per quanto possa suscitare scandalo. A difenderlo sono, inaspettatamente, i suoi amici romani; gli intellettuali dei salotti e dei caffè di Piazza del popolo: Carlo Emilio Gadda, Alberto Moravia, Elsa Morante, Laura Betti. Conosce anche Mario Soldati e Federico Fellini, collaborando ad alcune sceneggiature. Qui matura una visione della vita da trasporre su pellicola come nemmeno il neorealismo sa raccontare.
“Il cinema non è altro che la realtà”, dichiarerà in un’intervista.
Roma non è solo la città alto borghese, è anche la città delle borgate e dei suoi abitanti, senza le quali non si può capirne la vera essenza.
Osservando i suoi alunni e le sue prede, il linguaggio e gli espedienti, raccoglie una mole di materiale che traduce in un romanzo che esce nel ’55: “Ragazzi di vita”. Riporta in letteratura il linguaggio dei ladri e delle puttane, li fa diventare personaggi epici che parlano in parolacce che l’Italia bacchettona di quegli anni non gli perdona.
Pasolini constata la crisi del realismo e decide di passare al cinema che definisce “la lingua scritta della realta”. “Accattoni” è il suo primo film ed è anche il primo film vietato ai minori di 18 anni. Subisce una profonda censura. Lui stesso viene diffamato dai giornali di destra come “il Borghese”, dove lo definiscono “un pornografo di sinistra”.
Nel ‘60 Un giovane benzinaio lo denuncia per tentata rapina. È tuto inventato ma l’episodio getta Pasolini in un incubo. Il processo si baserà non sul capo d’imputazione, ma sulla sua omosessualità. Aldo Semerari, criminologo discusso per le sue teorie e la sua vicinanza alla mafia e alla massoneria deviata, stila un referto dove la violenza dell’imputato, che lui non ha mai nemmeno incontrato, risulta essere dovuta alle sue preferenze sessuali. Viene condannato. Ma è lui a condannare l’omologazione, la magistratura corrotta, la pubblicità, la dittatura dei consumi e del consenso.
L’atteggiamento dello scrittore, come lui ama definirsi, suscita un’ondata di sdegno e dissenso nell’opinione pubblica. Inizia una persecuzione di denunce, quasi sempre fasulle, e aggressioni.
Ad una di queste reagisce; ma “PaolA”, l’effemminata, non può picchiare: le foto che usciranno sui giornali, con le relative didascalie, fanno infatti sembrare che sia lui a prendersele, creando in questo modo, del tutto involontario, la figura del martire Pasolini.
Nel 63 esce “La ricotta”: ricostruzione della passione di Cristo dove, in una scena, profana la deposizione di Gesù. L’intento era di denunciare e sottolineare la desacralizzazione dei tempi moderni. È la storia di una umile comparsa, un tale Stracci, che muore sulla croce per indigestione. Viene processato per vilipendio alla religione. La pellicola è sequestrata. Viene condannato a 4 mesi. Ancora una volta arte e pensiero pasoliniani mettono in crisi i valori della società italiana.
Una sua frase testimonia in particolare, l’odio verso l’uomo medio, borghese, pigro, razzista, mediocre, bigotto, fonte primaria dell’arretratezza della società italiana: “l’Italia ha la borghesia più ignorante d’Europa”. È la società che lui vuole cambiare, sfidando il conformismo e negando ogni senso di appartenenza. È critico, fastidioso, concreto, superbo, arrogante, tracotante; non dirà mai ciò che uno vuole sentirsi dire.
Nel ‘68 condanna gli scontri giovanili come profondamente borghesi. L’ invettiva contro la falsa rivoluzione e i borghesi conformisti lo fa schierare, all’indomani degli scontri di Valle Giulia, contro la contestazione studentesca. “Teorema” arriva al festival di Venezia fortemente boicottato. Lui si schiera in prima fila, con i contestatori che lo appoggiano, occupando il palazzo del cinema. Viene denunciato lui e censurato il film. La figura del giovane che si presenta ad una famiglia, subito amato, per poi andarsene senza un’apparente spiegazione genera una anti catarsi nel momento in cui si scopre quel giovane essere, niente meno, Dio. La rivelazione fa scaturire tutti i fantasmi che solo lui riesce a far emergere scavando nella profondità dell’anima dello spettatore.
Nel 71 esce una trilogia di film che vogliono nuovamente essere lo specchio della società cui confrontarsi, da osservare dentro, oltre la superficialità del vetro riflettente. “Decameron” è il primo della serie, dove il passato critica la modernità, il colore medievale critica il grigio industrilae, denunciando quanto si stia perdendo a causa del consumismo e dell’industrializzazione. La vitalità perduta si traduce in scene di espressa sessualità che scaturiscono in nuove denunce.
Il secondo, “I racconti di Canterbury” prosegue sulla stessa falsa riga: la carnalità esplode in faccia allo spettatore. “Io credo nel progresso; non credo nello sviluppo, in questo sviluppo!”, dichiarerà in un’intervista. Con questa constatazione, amareggiata, disillusa, impotente, arriva all’ultimo lavoro della serie: “Il fiore delle Mille e una notte”. Perderà la speranza di cambiare la realtà ma non di descriverla. In “Scritti corsari” parlerà di cronaca, di aborto, di capitalismo quale corruttore di coscienze quando sfocia nel consumismo fine a se stesso.
Nel ‘75 istruisce un finto processo dove denuncia la corruzione dei personaggi appartenenti alla DC, e condanna il terrorismo: nella sua immaginazione il processo non arriverà mai a sentenza dal momento che la prima ad essere corrotta è proprio la magistratura.
Ancora nel ’75 “Salò o le 120 giornate di Sodoma” rappresenta la sfida più dura di Pasolini contro il potere. Narra l’instaurazione di una repubblica fantoccio durante l’occupazione fascista. Fa di fatto il verso alla Repubblica di Vichy, raccogliendo critiche acerrime oltre al naturale risentimento di chi quel potere detiene e a cui non intende rinunciare. Non vedrà mai sullo schermo il suo ultimo film: Il 2 novembre lo massacrano all’idroscalo di Ostia.
Pasolini arriva a scardinare persino punti fermi della società come la famiglia. Essa è la piccola difesa dal mondo esterno, un po’ meschina, al cui interno si crea il conformismo, l’oppressione. L’istituzione famigliare è passata dall’era preindustriale al consumismo rendendola non più necessaria, sacrificabile, destinata ad una lenta dissolvenza. L’interesse del potere è educare il bambino a diventare un buon consumatore.
Ad una tv francese dichiara: “Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista.” E ancora: “Ho fatto una recente proposta, a proposito di cannibalismo, di divorare i professori della scuola dell’obbligo e i dirigenti della televisione italiana”
“Non posso più odiare la borghesia perché tutta l’Italia è diventata borghese.”
Pasolini lascia un’eredità moderna, ancora attuale, anticipatoria di temi fondamentali quali il tracollo di ideali dovuto alla bestia consumista. L’abbruttimento e lo svilimento di una società conformata allo stile del consumo, creatrice di tanti automi non pensanti addestrati ad essere bravi consumatori, tutti in fila dietro al flauto magico del potere. Quello stesso potere che va odiato, combattuto, nonostante l’omologazione, la generale pigrizia, l’annichilimento della volontà attiva e pensante, lascino scarsi margini di reazione. Si sviluppa soltanto un lascivo abbandono al destino, nella consapevolezza della disfatta finale. Pasolini vive a testa alta la propria battaglia, non nasconde la naturalezza di una sessualità diversa che ancora oggi suscita scandalo, non rinuncia al gergo di periferia, al vaffanculo, alla carnalità declinata da chi il sesso vende a buon mercato. Non fa mistero della propria eresia profana e profanatoria.
“Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.”
P.P. Pasolini. Da “Poesia in forma di Rosa.”
Muore in un delitto avvolto di mistero, ammantato di un pathos decadente degno di uno dei suoi romanzi, dove prove, interrogatori, rapporti, indagini, lasciano trapelare una matrice politica, una soluzione definitiva ad un altoparlante scomodo e gracchiante, soccombendo alla sentenza di morte sancita da una vita di denunce, di lotte, di corse in automobile contromano. Quello di Pasolini è un epilogo preannunciato, firmato in calce da sé stesso, dall’inizio della sua rivoluzione sociale e letteraria, fino alla sua tragica fine. L’ultimo lamento di Pasolini sarà un urlo, “(…) sia certo che qualunque cosa questo mio urlo voglia significare, esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine”.
Alberto Busca