Nella totale distanza che una mostra può prendere dal quotidiano intendere l’arte contemporanea e lo spazio in cui vive, di solito vuoto, bianco, o domestico, o museale, o comunque con un valore storico ed estetico atto ad amplificare le opere lì esposte, nella mostra Emersioni organizzata da Andrea Sbra Perego e Federica Patera della DRIM Contemporary e curata da Marta Blanchietti e Carola Del Pizzo, si ha invece il caso opposto: una mostra fatta abitare in uno spazio piccolo, antico, sacro (ancora vissuto e inteso con questa funzione), coi visibili segni del tempo che hanno sì logorato le pareti, ma allo stesso tempo conferito quello stacco netto da ogni possibile accostamento estetico e concettuale con le opere con cui avrebbero dovuto poi dialogare.
Sono le pareti un po’ stinte e crepate della Chiesa settecentesca della Confraternita di Santa Croce di San Raffaele Cimena Alto, in provincia di Torino, ad aver lanciato la propria sfida, ad aver chiesto di essere guardate bene prima di affrontare un qualsiasi allestimento.
Il concetto, chiaro dal titolo, fa del “ritorno in superficie” il barlume con cui seguire il percorso tra le opere dei dodici artisti di varie tecniche, dall’installazione in vetro alla pittura, e dalla fotografia alla scultura e al video. Emergere è un processo, ciò che emerge a volte non sopravvive, a volte ciò che rimane immerso tende alla superficie senza afferrarla, forse alla fine evitandola.
E’ ciò che accade nella scultura Le sue promesse erano leggere come il vento presentata da Michele Liuzzi, artista torinese, che in un lavello in pietra ambienta un microscopico santuario di vetro che regge e protegge una piccola sfera al centro in cui, nascosta dalle rifrazioni della retroilluminazione, una donna sdraiata immortalata in una vecchia fotografia vive solitaria al riparo dagli sguardi e immersa, appunto, nel suo regno cristallino.
O ancora, nelle fotografie di Davies Zambotti, che qui presenta una selezione di quattro soggetti appartenenti a due serie differenti, Erano questi gli altri mondi? del 2015 e Il Primo Secondo, lavoro “in progress” iniziato nel 2022 il dialogo avviene tra la superficie dell’acqua e il corpo, e suggerisce una delicata sequenza leggibile narrativamente oppure no, con la fluidità di pensiero che da sola permette l’affiorare delle suggestioni che l’autrice è solita solo sussurrare nei propri lavori.
L’acqua e ciò che a lei sopravvive in superficie è disegno astratto, è visione trasparente e tridimensionale, è apertura opaca verso l’abisso. Il corpo che qui le si contrappone è il caldo della pelle in movimento, colto anche qui nell’astrazione che fa sfumare la fisica nell’irrealtà di un mondo colto solo di passaggio, prima di sentire quel calore bagnarsi durante l’immersione in una subacquea interiore. E’ questo movimento da e verso un buio sotterraneo – metaforicamente o no – il vero dominio poetico della mostra, senza che venga presa posizione in merito: emergere è un processo, come si è detto, verso cui tutto e tutti siamo prima o poi spinti, per inerzia, per sopravvivenza, per necessità comunicativa.
La superficie e il vuoto che si posa su di essa è a volte meta o ambizione, come nel caso di Icaro, qui proposto da Marco Andrighetto in Caro Icaro, una grande scultura di carta e acrilico che vede l’impotente ala di Icaro e i suoi piccoli brandelli caduti al suolo, sconfitti dalla greca hybris, dalla tracotanza di non volersi accontentare dei limitati orizzonti concessi agli uomini, per superarli. Sempre metaforicamente oppure no, quando qualcosa affiora da una superficie che lo manteneva su un livello diverso, più basso, e nascosto rispetto al resto delle cose, lo fa un po’ per volta. Ciò che si vede mentre si sta tornando a galla assume forme diverse ogni secondo che passa, ogni centimetro raggiunto verso una realtà diversa, un’atmosfera nuova.
Può essere un movimento fatto con affanno o con riluttanza, verso una luce che si può volere come negarsi fino al rifiuto. Viene alla mente un monologo di un personaggio del romanzo capolavoro di William Faulkner, L’Urlo e il Furore (1929): “[…] Quando lasci una foglia nell’acqua per molto tempo, dopo un po’ il tessuto se ne va e restano le fibre delicate a ondeggiare con la stessa lentezza dei movimenti che si fanno nel sonno. […] E forse quando Lui dirà Sorgete anche gli occhi verranno a galla, dal silenzio e dal sonno dell’abisso, per contemplare la sua gloria.”
I bulbi oculari che forano finalmente il tetto d’acqua per assorbire di nuovo la luce diretta, e l’aria, e il colore, sono la mano che tocca l’asse di legno dopo il naufragio, sono la bocca che mastica il pane dopo la fame.
Resta la tacita consapevolezza che emergere non è un fatto necessariamente migliorativo, né tanto meno definitivo: il processo comprende l’oscillazione perpetua per confermare uno e l’altro stato, di fame e di sazietà, di buio e di luce, di salvezza e di rovina. E se è necessario rischiare l’annegamento per poter avere lo slancio necessario per conquistare tutto l’ossigeno che siamo capaci di contenere, ci ricorda sempre la serie di immagini di Davies Zambotti, la sensazione più bella possibile sarà proprio il bagnato sulla pelle.
Carola Allemandi
La mostra ha inaugurato il 9 aprile e sarà visitabile fino al 30 aprile. Info e appuntamenti: 3342014286