NEL SEGNO DI RAFFAELLO
A circa 500 anni dalla morte dell’artista Raffaello Sanzio, subito amato da Casa Savoia, dopo che il ricercatore illuminato Carlo Alberto si curò di ampliare i confini della cultura all’interno del regno sabaudo, l’esposizione, allestita nel bunker della Biblioteca Reale, non presenta alcuna opera dell’Urbinate tra quelle custodite nella Galleria Sabauda, bensì offre al visitatore una carrellata di studi e bozzetti eseguiti da allievi, imitatori o semplici accoliti dello stile raffaelliano.
Va detto che il richiamo del nome suscita l’immediato interesse degli amanti della pittura rinascimentale o anche solo di coloro che non possono non restare ammirati dal fascino tecnico ed estetico che, a partire dai taccuini di Leonardo, ha aperto un mondo iconografico che non può lasciare indifferenti.
Sull’onda di una comunicazione volitiva, ma profondamente provinciale, che segue l’onda del “Torino che spettacolo”, si denuncia con forza una latitanza di un brand cittadino che evochi il corrispettivo sabaudo della meneghina città da vivere. Anche sotto il punto di vista artistico.
Le lastre dei marciapiedi torinesi, recandosi al Palazzo Reale, riflettono il grigio opaco delle nuvole cariche di pioggia, pronta a lavare tetti, argille, pietre, marmi di palazzi nobili, cortili, ombrelloni dei caffè, vetrine di ristoranti curdi. Si cammina ovattati tra i bisbigli di una galleria vuota: i musicisti sono assenti, mandati via da qualche legge stupida. I vaghi richiami dei locali che offrono cocktails ed aperitivi sono assorbiti dalle latifoglie del giardino del palazzo della Provincia. Si arriva ai cancelli del Guarini come sotto ipnosi, calpestando un pavè che si interrompe solo al passaggio delle rotaie dei tram e poi riprende, severo guardiano di una cultura che resta sotto, incapace di emergere, afona di una voce propria cittadina, che indichi appartenenza, che implichi una fruibilità necessaria ed immediata.
Con questo non si voglia togliere nulla alla preziosa esposizione degli afferenti a Raffaello, ma si conceda loro il giusto spazio, il meritorio plauso, senza necessariamente farsi raccomandare dal venerato maestro.
Protagonista assoluto con Leonardo e Michelangelo del Rinascimento italiano, Raffaello porta la pittura ai vertici. Lo stile del maestro, caratterizzato da dolcezza ed eleganza, da straordinaria abilità disegnativa, da cromie preziose e da un perfetto equilibrio compositivo, diventa un riferimento per molti autori impegnati non solo nel dipinto, ma anche nella progettazione di altari, come vedremo, di arazzi, di soffitti dove ricorre contemporaneamente il soggetto sacro, mitologico e allegorico, di fianco a quello profano, pagano, caricaturale, dove i modelli di Raffaello sono rivisitati con formidabile perizia tecnica e originale sensibilità chiaroscurale.
“Raffaello ha rappresentato, nei secoli, l’interprete sommo della bellezza e della grazia. Un genio capace di coniugare l’armonia formale con il palpito della vita – dichiara Enrica Pagella, Direttrice dei Musei Reali di Torino“. Non è mai stato così importante, come in questo momento, sostenere il mondo della cultura” e Raffaello ne rappresenta uno dei tanti degni portabandiera del suo tempo, da riscoprire, da imitare, da esaltare oltre la cerchia non troppo ristretta della sua scuola.
Ecco allora ripercorrere nella sua interezza la galleria della Biblioteca Reale, al piano terreno e scendere nel sotterraneo, dove in un ambiente a luce, umidità e temperatura controllata si presentano ventisei disegni di pittori italiani del ‘500, riconducibili alla scuola di Raffaello.
Si parte dal Perugino e dalla bottega romana in cui Raffaello riceve il suo battesimo artistico per poi diventarne il vate cui attingono artisti che riporteranno lo stile in ogni parte d’Italia: Giulio Romano, Parmigianino, Peruzzi, Polidoro da Caravaggio, Baccio Bandinelli, Girolamo da Carpi.
L’esposizione, in collaborazione con Intesa Sanpaolo, è stata curata dalla ricercatrice Angelamaria Aceto, dell’Ashmolean Museum di Oxford, l’istituto che che conserva il maggior numero di opere di Raffaello nel mondo.
La volontà di esporre al pubblico i disegni, siano essi prove, studi o bozzetti, suscita nello spettatore il privilegio della rivelazione della parte più intima dell’autore: pochi tratti a marcare un particolare che si presenta vivido e pulsante nella mente dell’artista nel preciso momento del concepimento dell’opera o di una parte di essa. È la fotografia istantanea del genio creativo nella sua espressione più vera, genuina, ingenua, se vogliamo, ma profondamente radicata nell’anima dell’autore.
Rappresentano l’essenza della forza espressiva della mente e della mano del creatore. La velocità d’esecuzione, la raccolta dell’attimo richiedono una tipologia di materiale facile all’impiego come la carta, la bacchetta di ematite per la realizzazione a sanguigna, la punta metallica, la bacchetta di carboncino o l’inchiostro e la penna. La carta è una scoperta araba di cinquecento anni prima (se non si considera la carta cinese basata su sottili lamine di bambù) che passa attraverso la Spagna andalusa e poi all’Italia in tempi e zone diversi tra loro. Dall’essicazione e dalla filtratura di fibre vegetali e tessuti viene sovrapposta a strisce ortogonali e poi trattenuta da reticelle metalliche. Anche ad occhio nudo, nei disegni esposti, si possono intravedere i segni a reticolo delle reticelle.
Il percorso è suddiviso in tre sezioni. La prima racconta la scuola del Perugino e la formazione di Raffaello in Umbria; la seconda percorre gli anni delle commissioni pontificie e della bottega romana dove si formeranno i suoi seguaci, ed infine si arriva ai continuatori di Raffaello.
Perugino non è certo un neofita: attinge anzi alla bottega del Verrocchio, che sforna geni del calibro di Botticelli e Leonardo. Raffaello si addomestica subito alla classicità dello stile, la matematica della prospettiva e l’equilibrio delle proporzioni.
La fama e le numerose committenze ottenute durante il periodo della bottega romana, sotto l’esplosione di committenze nel papato di Leone X, richiamano numerosi allievi ai quali il Maestro, vista l’enorme mole di lavoro, delega volentieri, facendoli rapidamente crescere nella loro esperienza artistica. Alla sua morte gli subentrerà l’allievo Giulio Romano, già perfettamente autonomo ed in grado di concludere le opere incompiute del maestro di Urbino.
I successori di Raffaello godranno del clima di fervente attività artistica sotto il papato di Clemente VII che esporterà definitivamente lo stile raffaelliano alla successiva iconografia, influenzandola e arricchendola di quei tratti caratteristici che anche i pittori più conosciuti tenderanno a fare propria.
Il giovane liutaio di Piero Vannucci, detto il Perugino, è del 1490 e si sofferma sul dettaglio del volto chinato e della mano in una spiritualità che tende a fondersi con lo strumento musicale in una sinestesia di suono e linee flessuose e delicate. La carta è in filigrana, visibile in trasparenza e testimoniava la cartiera e il luogo geografico di produzione, concorrendo a donare un valore reale e monetario al supporto usato.
Giulio Romano è rappresentato con due disegni: una testa di donna e il matrimonio mistico di Santa Caterina.
Anche Piero Bonaccorsi compare con due opere databili intorno al 1528: un progetto per il soffitto di Palazzo Doria e uno studio per la bordatura di un arazzo con figure grottesche. Mirabile la tecnica esecutiva dello studio di testa ed arti di Polidoro Caldara, al pari della testa e braccio di uomo barbuto e di uomini intorno a una colonna di Baccio Bantinelli.
Più classica ma ugualmente incisiva la Madonna con bambino e santi di Vincenzo Tamagni del 1525, che esegue anche uno schizzo, molto ermetico e con pochissimi tratti, del sangue del Redentore. In studi per una incoronazione, il Tamagni presenta una scena composta di numerose sotto scene dove ogni gruppo di uomini sembra indaffarato ad un compito diverso, ricreando, nell’insieme, una scenografia generale e conclusiva che riporta al tema.
Baldassarre Peruzzi ci offre uno studio per l’altare del Duomo di Siena: i tratti ripassati sul nero sembrano quasi ottenere un effetto tridimensionale sui particolari ingranditi e riproposti a diverse angolazioni.
La classicità statica nell’insieme, ma dinamica nel dettaglio dei panneggi, ad esempio, è riproposta da due opere del Parmigianino databili al 1530: la Sacra Famiglia con San Giovannino e la Sacra Famiglia con San Giovanni Battista e Elisabetta, dove gli elementi aggiuntivi all’ortodossia famigliare sembrano entrare de facto nel nucleo originale, senza corromperlo, anzi, estendendolo in una sacra partecipazione più completa che contenga più protagonisti possibili.
Biagio Pupini offre al pubblico due disegni del 1525: trofei e Cristo tra i dottori. Nella seconda rivediamo un connubio di scene come nello studio dell’incoronazione del Tamagni. Cristo sembra apparire improvvisamente in mezzo ai dottori nel Tempio, sorprendendoli nelle loro molteplici attività, suddivise a gruppi. La centralità di Gesù fa convergere la scena generale verso l’unica prospettiva possibile ossia l’unica figura statica cui, dopo la sorpresa, ogni attività profana dovrà riferire per fare ammenda.
L’ultima opera esposta appartiene a Girolamo di Carpi: studio di teste. Ancora una volta la capacità manuale espressa in tratti sicuri e decisi, si fonde con l’idea insita nella mente dell’artista. Gli studi finiscono quindi non solo con l’esaltazione della bravura dell’artista, ma con l’inchino verso la creazione scenografica dell’insieme nella sua intenzione interpretativa.
Alberto Busca
Dal 29 aprile al 17 luglio
Dal martedì alla domenica dalle 10 alle 19.