Nonostante vi sia una necessità vitale di riforma della giustizia, non riesco ad avere entusiasmo per il referendum che ci apprestiamo a votare, ma allo stesso tempo, con apparente contraddizione, ritengo indispensabile parteciparvi e farlo in massa.
Vi sono senza dubbio ragioni anche di carattere politico ad offuscare le idee poiché è per me difficile da digerire che tra i promotori ci sia chi si dichiara garantista, ma è stato nel recente passato promotore o votante, nell’ordine, della “riforma Bonafede”, del “pacchetto sicurezza”, della limitazione del rito abbreviato; entusiasta della giustizia immediata e tribale con l’allargamento della legittima difesa, piuttosto che inneggiante alla castrazione chimica od a formule vuote del tipo “tolleranza zero”.
Tra Salvini ed uno stanco Radio-Partito diciamo che la tenzone non parte con il giusto agonismo.
Cercando di depurarsi dai fatti epidermici, per così dire, credo si debba sgombrare il campo da una prima critica che il referendum ha ricevuto e cioè che la consultazione popolare sarebbe inadeguata per decidere di temi tecnici. Tale obiezione, tipica di molti magistrati e recentemente approdata sulle sonore labbra di una comica, appare del tutto strumentale e tradisce, insieme a qualche timore per gli esiti, un approccio esoterico che poco si attaglia ad un sistema democratico.
A ragionar così qualsiasi argomento è eccessivamente complesso per una decisione collettiva e pertanto la critica elitistica andrebbe rivolta all’istituto tout court e non solo nel caso di specie.
Se si pensa che si è votato sul nucleare (in maniera scellerata) e sull’aborto (liberando milioni di donne e uomini), temi sui quali si interrogano scienziati e filosofi, il prossimo voto appare come un pallido fratellino minore al quale i più possono certamente accedere.
Senza contare che il referendum abrogativo è uno strumento previsto dalla carta costituzionale, la quale ha compiuto la scelta originaria di escludere solo pochi argomenti dalla via popolare: le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia, di indulto e di ratifica dei trattati internazionali. Tutto il resto è libero ed essere contro i referenda significa essere contro la costituzione, il che per una comica ci può stare (forse non sulle reti nazionali), ma per un magistrato proprio no.
E’ evidente che sarebbe meglio che a legiferare in maniera attiva fosse il Parlamento, ma si tratta dell’ennesimo argomento debole poiché è altrettanto evidente che di riforma della giustizia si parla da decenni senza che nessuno abbia mai avuto il coraggio di mettervi mano, se non con provvedimenti asistematici e per gemmazione, propagandistici o ad personam. Con l’eccezione lodevole della cosiddetta riforma Cartabia, la quale (mi piace pensarlo, ma le parole sono identiche) ha ripreso alcuni stralci della legge Mori, di cui con l’associazione Marianna fui estensore e promotore.
Inaccettabile pertanto che la magistratura, tendenzialmente autoreferenziale, conservatrice ed oppositiva ad ogni novità (a volte anche con ragione, ma con il problema di non essere un attore politico), si stupisca che le esigenze di cambiamento deflagrino in un accesso di democrazia diretta.
Quanto alla complessità il discorso è presto fatto: bisogna spiegare, parlarne, divulgare. Certo se il tutto viene silenziato o affidato alla Littizzetto o al politico indagato di turno allora sì, allora è complesso per chiunque. Ma questo non è un problema dell’istituto, bensì degli attori politici e della comunicazione i quali, alcuni consciamente, altri inconsciamente, non sono certo stati efficaci veicoli di cultura.
Non sono questioni da relegarsi nel mondo degli addetti ai lavori. Nulla di più sbagliato. È difficile da capire, ma difendere i diritti di un cittadino che incontra la giustizia significa difendere i diritti di tutti. E se la si vuole mettere più venale, i nostri tribunali rappresentano uno dei fattori più negativi per la crescita economica, che di nuovo riguarda tutti: la Banca d’Italia lo dice da decenni che essi letteralmente si mangiano tre punti di PIL.
Il primo punto fermo è che il referendum è un momento democratico e costituzionale che va rispettato e irrorato di linfa vitale. Passando al merito.
Il primo quesito ci chiama a votare per l’abrogazione di norme che rendono inaccessibili cariche elettive o di governo per coloro che siano stati attinti da sentenze per gravi reati non colposi.
Francamente, se la sentenza è definitiva, l’incompatibilità non scandalizza. Vero è che vi sono stati casi di uso politico della giustizia, ma essi non rappresentano la quotidianità delle nostre aule.
Anche il secondo quesito, quello che riguarda la limitazione della custodia cautelare nel caso di pericolo di reiterazione del reato, non desta particolari entusiasmi. Si tratta di una norma, il 274, comma 1, lett. c) c.p.p., che è già stata più volte novellata e, ancora una volta francamente, il problema non pare il testo della legge.
La riflessione deve guardare altrove: non è lo strumento ad essere sbagliato ex se, ma l’uso che a volte se ne fa. Il vulnus sta nell’incapacità di distinguere e di sanzionare i magistrati che abusano dei provvedimenti custodiali e non si può, per così dire, portare via il pallone perché alcuni giocano in maniera scorretta e così non gioca più nessuno. Si escludano dal terreno di gioco i contendenti fallosi e si continui la partita.
Ma la chiusura di una certa magistratura, quella che comanda, rispetto ai temi disciplinari e meritocratici è tale che, anche in questo caso, forse è meglio, per tornare alla metafora, smettere di giocare piuttosto che continuare a farlo in maniera scorretta seppur in rari casi. Visto che, peraltro, si tratta di libertà personale e non di calcio.
Per il terzo quesito, relativo ad una rigida separazione tra la funzione giudicante e quella requirente, cioè tra giudici e pubblici ministeri, un “sì” incondizionato. Un “sì” politico più che altro perché tale separazione nei fatti già c’è e rappresenta il minimo sindacale.
Nei paesi a più lunga tradizione democratica i Pubblici Ministeri vengono eletti oppure sono sottoposti al governo. Qui da noi, nel mare magnum della panpenalizzazione e dell’obbligatorietà dell’azione penale, le Procure, senza alcuna legittimazione politica o controllo, scelgono quali casi vanno avanti e quali no, quali energie e risorse pubbliche dedicare all’una o all’altra questione e così via.
Se a ciò si aggiunge che Pm e Giudici fanno parte dello stesso ordine e che la giustizia e le valutazioni domestiche sono ininfluenti (poche sanzioni e tutti fenomeni, per semplificare) si giunge ad una condizione di irresponsabilità che non è difendibile; una condizione che è inaccettabile anche se, nella stragrande maggioranza dei casi, è propria di operatori preparati ed onesti.
Pertanto, se forse in Italia immaginare un PM sottoposto al ministro è velleitario, almeno approdare alla separazione funzionale ab origine, con due CSM separati per evitare che i magistrati dell’accusa, politicamente più attivi, possano influire sulle carriere di quelli giudicanti, sarebbe indispensabile. Non foss’altro per dare finalmente corpo a quel giudice terzo ed imparziale preteso dall’art. 111 della costituzione.
Quindi votare “sì” per dare un segnale.
“Sì” anche per il quesito numero quattro: abrogazione delle limitazioni imposte ai membri laici, avvocati e professori, dei consigli giudiziari. Che possano influire anche sulle valutazioni di professionalità dei magistrati e non solo su questioni organizzative.
Sul punto l’obiezione è sempre la stessa: ma poi l’avvocato vota contro il giudice che gli ha dato torto.
Ai magistrati che propongono questa argomentazione è facile rispondere. Intanto si tratta della stessa ragione per la quale si chiede la separazione delle carriere e cioè evitare che i pm possano influire sulle valutazioni dei giudici. Perché ci si deve fidare dei Pubblici Ministeri e invece degli avvocati no? Ed in ogni caso, certo che si darà l’eccezione del collega che usa il proprio voto in modo strategico ed individualistico, di sicuro qualsiasi soluzione sarà migliore dell’attuale e totale autoreferenzialità che produce i “palamari” e i loro sistemi.
E pertanto e su questa scia si voti “sì” anche al quinto quesito, che vuole rendere meno faticoso l’elettorato passivo dei membri togati del CSM. Se passa non sarà più necessario raccogliere le firme a sostegno della candidatura; un piccolo palliativo, ma anche un argine contro lo strapotere delle correnti.
Insomma, un referendum veramente poco entusiasmante e scarsamente incisivo, ma necessario per dire forte e chiaro che le cose vanno cambiate e presto. Si vada a votare, con il naso turato, ma si vada. I gattopardi ci guardano.
Fabio Ghiberti