La Cina scomparsa di Andrea Cavazzuti al MAO.
La narrazione, a chi ne fruisce, fa due grandi doni: permette di affacciarsi su qualcosa di sconosciuto – o altre volte inconoscibile – e regala tempo. Raccontare una storia significa prendere un tempo e darlo a qualcun altro, conferendogli il potere di stare fermo ed ascoltare, o guardare, per un periodo che potrà apparire illimitato, staccato da quello reale, e per questo immacolato.
La mostra, promossa dall’Istituto Confucio dell’Università di Torino e curata da Davide Quadrio e Stefania Stafutti dal titolo “Riposo! Cina 1981-84” è stata inaugurata al Mao – Museo di Arte Orientale di Torino lo scorso 9 settembre e sarà visitabile fino al 2 ottobre. Presenta oltre 70 fotografie in bianco e nero scattate in Cina tra il 1981 e il 1984 dal fotografo Andrea Cavazzuti, classe 1959.
Vivendo per circa quarant’anni in Cina, Cavazzuti è stato in grado di registrarne i lati mai pervenuti in occidente, svelarne l’umanità immediatamente successiva alla morte di Mao e vedere, quindi, come si muoveva ormai da sola.
Le stampe, di medio-grandi dimensioni, curatissime, indicano un approccio conscio e delicato insieme a ciò che Cavazzuti ha avuto negli anni man mano di fronte. L’entusiasmo di scoprire frammenti di un mistero e di dar loro finalmente forma e vita è placato dalla discrezione, da una luce che plasma omogeneamente tutto ciò che tocca, forse per coerenza con lo spirito proprio del popolo che andava ad avvolgere.
La Cina che si incontra nelle immagini di Cavazzuti è una Cina in tutto figlia di se stessa, sul cui viso è difficilissimo cogliere tratti propri di una qualche scossa emotiva, come se si fosse calcificata su una nota fissa tra il tono maggiore e quello minore. Una normalità, nonostante una nitida condizione di povertà rurale – “come nei nostri anni ‘40 e ‘50”, conferma Cavazzuti – cui raramente il nostro occhio è abituato, quasi un’accettazione attiva di chi esiste né libero, né liberato, e in questa condizione resiste.
Cavazzuti è stato invero molto bravo a tradurre sfumature simili in fotografia, utilizzando non soltanto, come già si è detto, una luce per nulla invasiva, assertiva, o estrema, ma anche scegliendo nelle proprie inquadrature quei soggetti che meglio si prestassero come simboli di quello spirito.
L’orizzontalità, in altre parole, domina molti degli orizzonti che Cavazzuti ha scelto: una fila di sgabelli uguali richiamano la schiera di biciclette ammassate contro il muro sotto un soffitto geometricamente parallelo al margine dell’inquadratura quasi usato a ribadirne il senso; oppure, la fila di mattoni con cui una bambina gioca per farli cadere a domino a loro volta sono il riflesso della fila di persone stagliate verticali dietro di lei. La verticalità, dal canto suo, è vista spesso attraverso elementi singoli: architetture che potrebbero essere le torri di un tempio cui i giovani che ci girano attorno non volgono più lo sguardo richiamano la staticità monolitica delle immagini dei coniugi Becher, della scuola di Düsseldorf. Se l’esempio dell’irrefrenabile processo di industrializzazione degli anni Sessanta e Settanta veniva scandito dai fotografi tedeschi in unità fisse e separate, spezzando quel flusso continuo che fino ad oggi sarebbe perdurato, Cavazzuti allo stesso modo pare voglia far rivivere al centro della scena il singolo, l’elemento che si alza in piedi e rimane solo nella stanza.
Il reportage di Cavazzuti, spiega in un’intervista di un paio di anni fa, è anomalo rispetto a questo genere comunemente inteso: il fotografo scatta sul cavalletto, impiegando quindi un tempo specifico di gran lunga superiore a quello cui normalmente il reporter tradizionale si affida. In questo modo la narrazione che offre pare verità consacrata, a sua volta combaciante con un senso di spiazzante normalità. Quando gli uomini di un bar guardano tutti nell’obiettivo della macchina, ognuno col proprio sguardo che simultaneamente risponde e giustifica quelli che lo attorniano, sappiamo di partecipare non tanto a un momento in cui i soggetti sono presi alla sprovvista, catturati senza aver avuto modo di spiegarsi con calma, ma partecipiamo alla loro lampante normalità, ovvero alla sincerità con cui guardano ogni cosa: non siamo lì con loro – questo è un effetto piuttosto chiaro che emerge dalle equilibratissime stampe esposte – ma ci viene offerto un varco attraverso cui poter comprendere, con l’eloquente discrezione cui ci abituano le immagini, rimanendo un passo indietro perché è tutto il resto che può venirci incontro per parlare.
Il tempo che si è preso Cavazzuti negli anni per ritrarre una Cina che pian piano ha potuto conoscere in profondità è lo stesso tempo che ha impiegato in ogni scatto, quello in cui, come spiega anche lui, “da elemento estraneo diventavo man mano sempre meno degno di nota, e quindi parte integrante di quanto mi stava accadendo di fronte”. Non essere degni di nota è a volte l’unico modo per squarciare il velo ed entrare davvero nel reale, nel suo senso estremo e, quindi, fondamentalmente comprensibile. E per poter non essere degni di nota serve tempo, questo pare dirci Cavazzuti col suo modo di fotografare, affermando infine che solamente l’altro ha qualcosa veramente da dire, che è necessario farsi sostanza trasparente, materiale conduttore, per far emergere la vera storia e che, quindi, il terzo dono e requisito insieme che della narrazione è scomparire.
Carola Allemandi