Tra Catari e despoti, “Deus Vult”, una storia e un film medievale nelle Langhe.
Domenica 18 settembre il cinema Moretta di Alba ha ospitato la prima del lungometraggio autoprodotto “Deus vult”. La sala gremita ha decisamente premiato la produzione e gli attori alla loro prima volta su un set cinematografico.
Il film. L’accenno alle crociate è solo marginale. In quelle due parole che sanno di ineluttabile, la Compagnia dell’artiglio del drago, produttrice del lungometraggio, ha provocatoriamente rivelato una scusa: un nascondiglio dietro cui barricarsi per giustificare l’ignavia umana nel perseguire un sogno. Deus Vult è la parola magica, l’abracadabra del sotterfugio umano di assegnare alla volontà di Dio ciò che è puro ed egoistico desiderio dell’uomo.
È la giustificazione divina a garanzia di ogni meschinità umana.
Di fronte al frate che pronuncia “Deus vult” come lenitivo arrendersi al destino, Costanza risponde: “non è Dio, ma l’uomo che lo vuole!”. Lo stesso “Deus vult” cambierà significato quando alla taverna verranno raccolte le armi per riprendere il castello. Questa volta è l’uomo a volerlo, ma con l’aiuto di Dio. Perché Dio, nel medioevo è una presenza costante. Pregato in maniera più o meno ortodossa; d’altronde il Piemonte, tra Vaudois, Ugonotti e Catari ha sfornato più eresie che l’epoca dei Padri della Chiesa. Ed Asti è stata sede di Inquisizione: I Catari scampati alle persecuzioni di Bezier e Montsegur, si radunano, in parte, a Monforte d’Alba e, se in un primo tempo viene data loro la possibilità di ritrattare, la persecuzione diventa inevitabile di fronte al rifiuto e all’espandersi dell’eresia.
Questo il sottofondo storico della trama del film, ambientata nel 1254, interamente autoprodotto e patrocinato dai Comuni di Verduno, Monticello e Roddi, con la partecipazione della Regione Piemonte, Miroglio, Banca d’Alba e Turismo in Langa.
Lo sforzo è stato notevole, dai provini ai costumi, gestiti nei minimi dettagli persino nell’abbigliamento delle comparse.
L’aiuto di un drone e la sapiente regia di Pierluigi Ferrero, hanno saputo immortalare luoghi già estinti: laddove era la curva del Tanaro, il rifugio di Costanza, la spiaggia dei cristalli, ora passa l’autostrada, lasciando alle immagini la rievocazione di luoghi non più intatti e spogliati della magia che li rendeva così “medioevali”.
La cura del dettaglio, dagli sguardi alle barbe, la mimicità, la gestualità, i timbri, gli atteggiamenti degli attori, dal frusciare della quercia al suono del nodo scorsoio, dalle armi al vasellame hanno reso il set del film un luogo non di rievocazione ma di ricostruzione attenta e filologica. I luoghi del girato sono stati oggetto di assidue frequentazioni: fotografati, annusati, accarezzati, nella convinzione di riuscire a permearsi dei colori, degli odori, della brezza, del caldo, del gelo, della superficie ruvida della pietra e della corteccia, della polvere dei cortili e delle strade, della lucente freddezza del metallo delle spade e della calda sicurezza del legno degli scudi.
Il film finisce per essere un inchino alle terre intorno ad Alba e ai personaggi che le percorsero nel nostro lontano Medioevo.
La trama del film è semplice, genuina, rasenta l’ingenuità dei racconti medioevali dove il cattivo si allarga fino a trovare nella propria nemesi la giusta punizione, servita dai buoni, gli oppressi, i perseguitati: coloro che necessitano di redenzione, giustizia e la restituzione di quell’umanità che il feudalesimo non può concedere e rende tutto il costrutto una semplice fiaba. Il riscatto, la coronazione dell’amore, la caduta del potente, il ripristino dell’ingiustizia sono la riproduzione dei poemi cavallereschi, l’ottenimento di una catarsi puramente teatrale e virtualmente didattica, demagogica, ma di effetto nella sua ingenuità.
La recitazione lascia trasparire una richiesta di tenerezza verso chi affronta una telecamera per la prima volta. Eppure il risultato c’è. Se si tralascia l’orpello della prestazione da star, le azioni ed i dialoghi, fieramente nostrani, dialettali, talvolta evidentemente provati mille volte, restituiscono un senso di folklore provinciale che ben si adatta ai testi e alla scenografia, studiata nei minimi dettagli. A risolvere la questione provvedono attori consumati come Cristiano Omedè, capace di mettere a proprio agio l’intera troupe pur mantenendo un’interpretazione brillante, ma mai fuori luogo se paragonata alle prestazioni degli attori non professionisti, peraltro ottime.
Le risorse finanziarie hanno impedito l’intero doppiaggio dei dialoghi, eppure l’accento monferrino ha forse, involontariamente, giocato la sua parte, rendendo più vera la storia.
I dettagli hanno forse giocato la parte decisiva che ha ottenuto una resa finale più che buona: dai cavalli ai cani addestrati, alle ore di allenamento schermistico condotte dal maestro Luca Vallino, alle prestazioni degli stuntmans, il risultato non poteva che essere positivo, grazie anche all’abilità del regista.
Ferrero è prima di tutto un giocatore di Rugby: lo si intravede nel modo in cui gira le scene unendo una risolutezza invidiabile ad una pacatezza che mette a proprio agio. Ogni scena è studiata, come uno schema di gioco, attenta ai dettagli, alle luci, ai movimenti, alle angolazioni. Ogni dialogo, ogni arredo, ogni cenno degli attori si incastra perfettamente in un tutto unico di squisita raffinatezza incantando e coinvolgendo persino gli astanti durante il ciack, commuovendoli, indignandoli, esaltandoli fino alla catarsi dello stop. La precisione storica, filologicamente riproposta negli ambienti e nei costumi, restituiscono al cinefilo uno squarcio di medioevo crudo e quasi tangibile; un chiaro-scuro che non lascia spazio al piatto, ma eleva ogni scena ed ogni dettaglio ad un rilievo plastico in movimento che ti abbraccia e ti lascia andare, in completa balia di un mondo scomparso e da riscoprire.
Alberto Busca
Produzione, scenografia e costumi: Compagnia dell’artiglio del drago, Gianluca Grosso, Sabrina Bertuol, Giovanni Andolina, Aldo Conte.
Cast: Cristiano Omedè, Carlo Costa, Beppe Incarbona, Monica Martinelli, Michele Ferrero, Giulio Cavaglià.
Regia: Pierluigi Ferrero.