Capita un giorno di trovarsi in un contesto ben lontano, ben diverso da quello in cui ti aspetteresti di incontrare un luminare della disciplina per cui in realtà in quel momento ti trovi in qualità di falso e momentaneo protagonista: magari durante una tua esposizione personale, in un bel salone de coiffure nel centro di Torino, magari ti giri e c’è Antonella Russo, autrice, tra le altre cose, del libro “Quattro storie d’amore e di fotografia” che già conosci per fama.
Passano pochi giorni perché si ripresenti l’occasione di rivederla nel suo studio, bianchissimo, vero tempio di editoria fotografica che mostra e di cui parla con non del tutto mascherato orgoglio: in quel bianco assoluto sono conservati documenti, faldoni, monografie, cataloghi introvabili. Deve però passare ancora del tempo prima che, tornando da lei, le voglia chiedere finalmente “con malcelato entusiasmo”, come correttamente anche lei ricorda, qualche domanda per un’intervista per scoprire quanto solo per piccoli stralci aveva fino ad ora voluto confidare sul suo percorso.
Chi è, quindi, Antonella Russo?
Dalla laurea conseguita ventitreenne in Lingua e Letteratura Inglese presso L’Università Orientale di Napoli, specializzatasi poi in Storia della Fotografia, grazie a una borsa di studio Fulbright-Hays “la prima e, ancor oggi, unica assegnata in Italia per questa materia”, nell’ateneo fondato dal fotografo e saggista Van Deren Coke nel New Mexico, qui diventa in un anno assistente di Beaumont Newhall per poi muoversi ancora a New York dove segue i corsi di Rosalind Krauss e inizia la sua attività di ricerca al Museum of Modern Art. Ha poi lavorato per la Elizabeth and André Kertész Foundation e al Castello di Rivoli. Qui fonda un dipartimento di fotografia e organizza una grande retrospettiva di Mario Giacomelli, di cui conserva tre preziosi doni su una delle pareti del suo tempio immacolato.
Procedendo sempre per sintesi obbligata, nel 1999 pubblica “Il Fascismo in mostra”, diventato testo di riferimento, e intorno a questi anni insegna presso la Facoltà di Beni Culturali di Lecce (Università del Salento) organizzando il ciclo di incontri “L’ora di fotografia” invitando a parlare i maggiori esponenti della fotografia del secondo Novecento.
Dà davvero l’impressione del noto “San Girolamo” di Antonello da Messina, ritratto in una piccola cartolina che funziona come unica fonte di colore tra tutte le tre stanze dello studio, e di una vita intera dedicata a quella “fotografia teoretica” da lei stessa definita come metodologia atta a “individuare le leggi che sovrintendono alla rappresentazione di quell’attività umana e artistica specifica della fotografia”.
Approdata quindi qui a Torino, riesce a portare finalmente ciò che la fotografia da tempo meritava: attenzione, sapiente curatela di mostre, struttura teorica e culturale per saper davvero portare il vedere fotografico sia al grande pubblico che alla nicchia specializzata. Antonella Russo è rimasta ermetica anche quando a voce le prime volte parlava di sé, quasi con una ritrosia desiderosa di essere stanata, in attesa di un attacco che già si sa svariate mosse prima come difendere e rovesciare. È così che molte delle informazioni solo intuite, quasi desiderate, vengono a galla nel contesto del dialogo ricreato da un giornalismo semi-improvvisato, e in cui finalmente il personaggio esce allo scoperto, depredato dalle mosse cortesi di una curiosità viva.
Antonella Russo pubblica “Quattro storie di amore e di fotografia” nel 2021 per Jaca Book e “lo definisce un libro olistico”, basato cioè su una metodologia multidisciplinare che comprende non solo storia della fotografia, ma anche psicoanalisi, storia della medicina, scienza quantistica, filosofia orientale.
Si articola in quattro capitoli, ognuno dei quali analizza un grado diverso di rappresentazione amorosa: La condizione amorosa della fotografia surrealista esplora l’amore passionale o “convulsivo” nelle fotografie de Nadja (1928) e L’amour Fou (1935) di A. Breton, I fototesti “innammorati” di Eugene W. Smith considerano Country Doctor (1948) e Nurse Midwife (1951) come espressione di amore -pietas, una dimensione più alta e nobile dell’amore “folle”; Gandhi e il filatoio (1946) di Margaret Bourke White, è pensata come manifesto universale per una politica attiva di amore solidale, e il capitolo conclusivo, Il discorso amoroso della fotografia familiare, è una meditazione sulla fotografia dei propri cari o defunti capita come l’alfabetizzazione al sentimento d’amore più puro e profondo.
E’ un saggio che tenta di percorrere una nuova via, una modalità del tutto inedita di pensare la fotografia come teoretica di un’energia amorosa al lavoro in alcune immagini, e si occupa di rintracciarne le leggi. Definisce questo volume “un libro che identifica non solo una teoria dell’immagine, ma anche una pratica della fotografia amorosa perché istruisce a rintracciarla, pensarla e soprattutto a coltivarla”.
Questo il primo atto. Segue il resto del dialogo che ha tentato di unire i brandelli di racconto per ricostruire il ritratto di una fedele pellegrina della fotografia: una ricercatrice, una critica, una storica, dedita per anni anche “all’insegnamento della storia ma soprattutto della Teoria della fotografia nel senso del greco theoréo – guardo, osservo -” campo in cui lei stessa si definisce “specialista solitaria”.
Quanto bisogno c’è di diffondere la cultura fotografica, in particolar modo la storia della fotografia? E’ necessario conoscerla per poter produrre fotografie oggi?
Di cultura e specialmente di cultura fotografica abbiamo oggi un disperato bisogno. Cultura fotografica vuol dire per me comprendere, o per lo meno lavorare per acquisire consapevolezza delle molteplici sollecitazioni e distrazioni che assalgono e disturbano la nostra visione.
Cultura fotografica significa inoltre non trascurare la critica all’industria dell’immagine visiva del mainstream, pervasiva e prepotente, e quindi affermare una cultura visiva “eretica” che possa proteggerci dall’inquinamento visivo dei “socials”. Vuol dire anche sottrarsi a una narrazione visiva univoca occidente-centrica dei fatti concernenti la fotografia e la storia della visualità. Credo che anche i produttori di immagini debbano avere consapevolezza della propria cultura visiva per “armonizzare” quella odierna. E’ un loro dovere oltre che una responsabilità.
Come definiresti la fotografia contemporanea? Ci sono correnti delineate, tendenze tematiche o geografiche, stili formali enucleabili e teorizzabili?
Attualmente la maggior parte dei miei colleghi – mi spiega – è attivamente interessata a pensare alla fotografia come campo di ricerche specialmente antropologico e di studio pluriculturale e anticolonialista, sono interessati cioè al recupero (e all’affermazione) di culture fotografiche di minoranze specialmente non occidentali. Per quel che riguarda invece le tendenze autoriali, mi sembra che prevalgano quelle incentrate sull’ennesima “riscoperta” del documentarismo e altre imperniate su un ibrido di ritrattismo da tableaux fotografico – che trovo meno interessante. La tendenza più Pop è quella dello sperimentalismo “ecologico” prodotto con il digitale. Constato con grande compiacimento che le ricerche più entusiasmanti sono prodotte sempre più da donne fotografe, come se avessero perfettamente assimilato quella qualità “generante” propria della macchina fotografica.
Come vedi e vivi il passaggio dall’analogico al digitale? E’ già un dibattito anacronistico e inutile o ancora vivo e necessario per alimentare la ricerca fotografica?
A oggi, nonostante decine e decine di manuali tecnici, non esiste una teoria articolata e coerente sull’immagine fotografica digitale o sull’immagine elettronica. Credo che per una teorizzazione del digitale sia importante ricordare che tale fotografia arriva “dallo spazio”: si tratta infatti di una trasformazione di computer-satellite usato negli anni Settanta per monitorizzare pianeti, è dunque una tecnologia di sorveglianza di cui parliamo. Allo stesso tempo essa è in grado di elaborare immagini generate elettronicamente di grande precisione in grado di farci osservare una serie infinitesimale di dettagli che possono derivare anche da un positivo analogico con una qualità di definizione sorprendente.
Piergiorgio Branzi, mio compianto amico, era un entusiasta neofita della fotografia digitale che gli aveva fatto scoprire dettagli inaspettati nei suoi positivi degli anni Cinquanta. Certo è che la fotografia come l’ha studiata e insegnata la mia generazione si è estinta nel 1980, anno zero dell’era del computer. A partire da quel momento tutto un paradigma è mutato e ha complicato, e non di poco, il modo di pensare e studiare l’immagine fotografica e lo affermo senza provare alcuna nostalgia.
L’avvento dell’elettronica visiva ha mutato non solo il modo di “vedere”, ma anche un modo di capire la fotografia. Oggi, la nostra stessa identità appare indissolubilmente legata, definita e dipendente da sempre più nuove e mutevoli tecnologie visive digitali, schermi liquidi dell’azione storica sui quali ci agitiamo e compulsiamo per sopravvivere.
Stai lavorando a un bel progetto Web che conterrà quello che hai intitolato “Scintille Mag”, di cosa si tratta?
Scintille Mag raccoglie una serie di “dirette” su temi di cultura visuale e approfondimenti condotti con fotografi, critici, artisti, filosofi e scienziati.
Sogno che diventi un programma da “prima serata “ del web, così che si possa discutere di cultura , libri, fotografie con la stessa frequenza e competenza di come si discetta dei gol dei calciatori, con tanto fermo -immagine, e ricostruzioni alla moviola e inquadrature a tutto campo su dettagli di opere d’arte insieme ai commenti di un parterre di specialisti che dibattono sulla direzione di musei oppure sui fondi da stanziare per la Cultura. Insomma elevare la cultura visiva oltre il livello del mainstream. Provi a immaginare l’effetto della notizia delle ultime fotografie di Carola Allemandi al TG1 o a La7!
Carola Allemandi