JR – Gallerie d’Italia
La mostra “Déplacé-e-s.”, inaugurata pochi giorni fa alle Gallerie d’Italia e curata da Arturo Galansino, è il resoconto di una grande performance firmata dall’artista internazionale di origini francesi JR.
Il giorno prima dell’apertura ufficiale, infatti, dopo una call gratuita lanciata su un sito internet dedicato, quasi duemila persone si sono prodigate nel trasporto e nell’apertura di cinque enormi teli raffiguranti altrettanti bambini immortalati in alcuni dei più grandi campi profughi del pianeta. Questa è stata la prima volta in cui è avvenuto l’incontro delle immagini dei cinque bambini e “pochi si sono accorti che, visti così,” – ha spiegato JR – “sembrano stati colti mentre giocavano insieme nello stesso momento.”
L’artista, dichiaratamente lontano dalla tecnica fotografica e più vicino a quella dello street writing, da anni convoglia nella sua ricerca il tema sociale con l’iconografia portata alla massima sproporzione, all’immagine fatta simbolicamente occupare uno spazio a volte talmente grande da non far accorgere le persone neanche della sua presenza.
Durante la conferenza stampa, di fronte alla domanda se l’artista si ritenga “engagé”, ovvero “impegnato”, ha risposto che forse il termine corretto sarebbe “engageant”, gioco di parole che unisce il significato letterale “coinvolgente”, alla radice del termine, rendendo un senso vicino a quello di “impegnante”, “che fa impegnare”.
Piattaforma della sua ricerca è infatti il richiamo delle masse attorno a un’immagine, solitamente raffigurante il soggetto simbolico del tema che di volta in volta affronta. L’artista è in grado così di generare un effetto di “accoglienza collettiva” di quel simbolo gettando fisicamente in mezzo a centinaia di mani, prima ancora che occhi, la materia prettamente mediatica di un fenomeno che altrimenti rimarrebbe nell’ineffabilità dell’indifferenza e dello scorrimento delle notizie.
A priori, l’intero processo funziona: i numeri lo testimoniano, così come l’interesse generalizzato e attivo nei confronti dell’artista e di questa operazione in particolare. Da un punto di vista prettamente fotografico – elemento che fino a ora pare quasi mancare nell’intero discorso – l’idea di “scontornare” le immagini rudimentalmente realizzate ai bambini nei campi profughi e di renderle delle enormi sagome conduce il pensiero a quell’idea di sintesi del soggetto che è la base del metodo fotografico, a partire dalla scelta stessa dell’inquadratura.
In questo caso il soggetto vive in una sintesi estrema, estraniato definitivamente anche dalla patria di fortuna in cui è stato immortalato: qui trova forse ulteriore significato il titolo della mostra “Deplacées”, ovvero “Spostati”, tolti da un luogo e assegnati forzatamente a un altro. JR fa esattamente questo, ribaltando però il vettore del processo: a partire da un fenomeno di espulsione collettiva e di separazione generalizzata dalla propria terra, l’icona che ne porta il simbolo viene a sua volta estratta e “astratta” dal suo contesto, congelata in una dimensione sospesa, trasportata ancora in un luogo dove avverrà invece quell’accoglienza collettiva che contrasterà con la prima fase dell’esodo.
Ciò che si vede visitando la mostra, come si diceva, è in qualche modo il resoconto massicciamente videografico di quanto avvenuto nel grande occhio di Piazza San Carlo durante la performance, il riassunto di un’esperienza che siamo chiamati a rivivere in loop e in 4K.
Si vede così il video dei droni che l’hanno documentata rendendo visibile dall’unica prospettiva possibile l’operazione nella sua interezza; altri video proiettati nella grande sala ipogea come compendio cinematografico della documentazione dei campi profughi in cui è stato l’artista; altri cinque video più specificamente dedicati alle storie dei bambini protagonisti delle immagini: questi si vedono in formato verticale, come a proiettarci in una videochiamata sullo smartphone con l’artista stesso.
Si vede così JR in Ruanda, in Grecia, nell’isola Mauritius, in Colombia, in Ucraina, diventare nostra guida e cronista dei suoi giorni passati in contatto coi popoli sfollati e dei bambini assurti a loro simbolo. Proprio in mezzo a loro, nella stanza successiva, e proprio in mezzo a tre dei cinque teli della performance, ci si trova a camminare, quasi fossero quinte teatrali in movimento, potendo visitarli finalmente a misura d’uomo, uno per volta, vis-à-vis. Un tributo finale che accorcia definitivamente le distanze, a ribadire quel primo gesto di contatto che è il solo sguardo diretto agli occhi dell’altro.
Carola Allemandi