Il clima ci riguarda. Un’inchiesta di GazzettaTorino
Per avere una visione più chiara possibile dell’emergenza climatica in atto, abbiamo interpellato Dario Padovan, professore associato di Sociologia all’Università di Torino, perché i suoi insegnamenti spaziano tra i corsi di Sociologia del cambiamento climatico, Sociologia dell’ambiente, Sistemi sociotecnici e ambiente e un laboratorio dedicato alla costruzione degli scenari futuri.
Il Professore ha accolto le nostre domande, restituendo una articolata riflessione arricchita da una notevole quantità di informazioni che per ampiezza abbiamo sviluppato in quattro articoli, interconnessi tra di loro, ma ciascuno con una forte identità argomentativa.
La terza risposta dell’esperto pone l’attenzione sulla lotta per la transizione ecologica considerata un moltiplicatore di conflitti. La Natura che diventa obiettivo politico.
Non c’è momento della storia in cui gli uomini non si sono battuti per ciò che reputavano giusto. In questo periodo storico la vera battaglia da combattere è per la transizione ecologica? Battersi per una transizione equa può effettivamente essere motivo di conflitto?
Penso proprio di sì. È finita la stagione in cui si pensava ingenuamente che le trasformazioni ecologiche avrebbero messo tutti d’accordo in uno scenario win-win, in cui tutti avrebbero vinto. Quaranta o cinquant’anni fa forse questo era ancora possibile. Essendosi basata sulla preoccupazione per una natura conosciuta tramite la scienza ed esterna al mondo sociale, l’ambientalismo si è adagiato troppo a lungo su una versione pedagogica della propria azione: poiché la situazione catastrofica era nota, sarebbe inevitabilmente seguita l’azione.
Tuttavia, oggi è quanto mai evidente che, lungi dal sedare i conflitti o dal distogliere l’attenzione da essi, l’appello alla «protezione della natura» li moltiplica. Inoltre, proprio le interdipendenze planetarie del presente ci fanno dire che oggi è molto difficile non pensare a una transizione segnata da conflitti e guerre interne e globali. Ben prima della guerra russo-ucraina vi erano segnali di una crescente conflittualità sociale che a volte tracimava verso la guerra civile. Per esempio, la diffusione e radicalizzazione dello scontro socio-razziale negli Stati Uniti ha spinto alcuni a rievocare il concetto di guerra civile – civil war. Secondo David Theo Goldberg, gli stati scivolano nella guerra civile quando concezioni contrastanti della vita si confrontano e si attestano su posizioni irreconciliabili, quando la vita, per una parte considerevole degli abitanti dello stato, è resa insopportabile, e le richieste per cambiarla vengono combattute da altri abitanti dello Stato.
Le guerre civili non sono solo la conseguenza imprevista del fallimento della lotta per la democrazia, sono lotte su modi competitivi di essere nel mondo, sulle loro concezioni sottostanti, sul controllo degli apparati politici ed economici dediti alla riproduzione, sul rapporto con la parte materiale della vita sociale, per il controllo della natura stessa.
La guerra civile – stasis in greco – offre un’analisi della contemporanea condizione sociale dettata dal capitale globale, là dove la posta in gioco è la gestione delle relazioni tra la società e i suoi fondamenti bio-fisici, si tratti delle relazioni tra presunte “razze” e sessi, o dei fondamenti ecologici riproduttivi del sociale, il suo oikeios, ossia l’insieme delle relazioni tra il “sociale” e il “naturale”. Hannah Arendt e poi Giorgio Agamben hanno messo in luce come la base di svolgimento delle guerre civili, da quelle greche della polis a quelle religiose del ‘600, a quelle contemporanee, abbiano come oggetto del contendere la relazione tra vita biologica, riproduzione dell’oikos e politica. Fino a qualche tempo fa si poteva erroneamente pensare che esista ormai una “lunga pace” fra gli stati a livello globale, ma le loro popolazioni non possono certo sentirsi tranquille o sicure di fronte a conflitti che si svolgono internamente al corpo sociale.
Finita la lunga pace interstatale, si può oggi capire che l’ombra scura della guerra civile si è estesa al sistema globale degli stati in un mix caotico di guerre tra componenti civili e apparati statali, come è accaduto nel caso della Siria e ora dell’Ucraina.
Bruno Latour ha interpretato il ritiro di Trump dall’accordo di Parigi sul clima come una virtuale dichiarazione di guerra mondiale che allo stesso tempo ha posto barbaramente la centralità geo-politica della questione climatica e dei suoi legami con le ingiustizie e le disuguaglianze. Se la presidenza Trump è finita con sovranisti e fascisti lanciati all’assalto del Congresso, la presidenza Biden sta per finire proprio nel segno di una guerra dispiegata che sta per diventare mondiale. Ma non è chiaro se con tale forma politica inizierà anche il declino di quel capitalismo fossile che ha sostenuto Trump e sostiene Biden. Alla fin fine, le guerre civili interne e le dinamiche tensioni globali e geopolitiche sono strettamente collegate.
Le guerre civili e globali che si profilano all’orizzonte possono essere lette come costitutive dell’Antropocene, ossia di quell’era che vede il geo-capitalismo – e non l’Anthropos – come una potente forza geologica. Le guerre civili possono così essere considerate e analizzate come una delle conseguenze – ma forse anche una delle cause – del deterioramento delle relazioni tra il complesso politico/economico e il complesso ecologico/sociale, della crisi profonda del nesso capitalismo/natura. Nella Grecia classica, la semplice vita naturale era esclusa dalla polis e rimaneva confinata nella sfera dell’oikos, così come la natura nell’era del capitale è sottoposta a esclusione e occultamento. Ma quando tale soglia di esclusione viene superata e l’oikos viene internalizzato, come avviene ora con la crisi ecologica, l’oikos si politicizza e, inversamente, la polis si «naturalizza», cioè si riduce a oikos.
La Natura diventa quindi la posta in palio della guerra civile, diventa un obiettivo politico, entra nella politica. La Natura, la Terra, Gaia, viene sottoposta al duplice movimento di esclusione/inclusione, occultamento/sfruttamento, depoliticizzazione/politicizzazione. In questo duplice movimento si annidano i potenziali delle guerre civili che si sono combattute, che si combattono e che si combatteranno tra chi include e chi esclude, tra chi sfrutta e chi cura, tra i presunti legittimi portatori di diritti statali e i globalmente segregati, si tratti di membri di razze, sessi, classi, ceti, etnie, specie differenti. La Natura – o la Terra – nella sua genericità diventa così il fondamento di una guerra civile globalizzata intrastatale che può diventare rapidamente una guerra interstatale – come nel caso della guerra russo-ucraina – che si combatte per decidere quale sia il modo in cui ci relazioniamo con la Terra, con Gaia. Non è difficile pensare che i perdenti della guerra civile, quelli al di fuori della linea territoriale, gli espulsi, i non appartenenti e immeritevoli, verranno scacciati come estranei, «incatramati con il pennello della differenza razziale» (Goldberg). Fino ad ora si è provato a ridefinire l’enorme numero di conflitti ambientali che fungono da indicatori della crisi ecologica che si dipana incessantemente da decadi, per delineare una cosiddetta “guerra civile globale” a bassa intensità. Quella guerra civile a bassa intensità è diventata ora una guerra – ancorché regionale – ad alta intensità di merci e capitali, dove si intrecciano tentativi di acquisire suolo, acqua, materie prime, energia, cibo, animali, piante, lavoro umano e tentativi di ridisegnare un nuovo ordine globale delle società e dalla Natura. La guerra non rispetta i confini, né quelli umani né quelli con la natura.
La civiltà della merce, che continua a tenere in ostaggio l’intera umanità, si fonda sull’acquisizione di qualsiasi componente del mondo non-umano per convertirlo in merce, mentre rimuove qualunque elemento che ostacoli tale appropriazione. Per estensione logica e pragmatica, la civiltà si fonda anche sull’annullamento di qualsiasi agente umano (culture o individui) che ostacola, per qualsiasi motivo, l’accesso alle risorse, come è accaduto negli ultimi anni a più di un migliaio di attivisti e difensori dell’ambiente. Per la precisione, negli ultimi 15 anni sono stati uccisi 1.558 attivisti, per lo più contadini e indigeni, 212 nel solo 2019.
La recente ondata di repressione nei confronti dei movimenti ecologisti radicali non è un buon segnale per quanto riguarda la risoluzione minima delle contraddizioni qui delineate. Anzi, è proprio un incentivo nella direzione della conflittualità civile. In questa prospettiva la repressione dei movimenti non è solo è una tardiva rappresaglia della classe dirigente per gli “eccessi” del movimento ecologista che negli ultimi anni ha condotto una serie di proteste climatiche che hanno coinvolto milioni di partecipanti. Si tratta invece di contenere con la forza militare dello stato un’ondata di rivolte molto più ampia, che Ben Ehrenreich ha definito una “ribellione globale contro il neoliberismo”, proteste che avevano portato in primo piano i temi della giustizia climatica, del femminismo, dell’antirazzismo e dell’anticapitalismo.
Per un breve periodo, i principali attori del capitalismo fossile si erano trovati in una situazione piuttosto scomoda. Messi alle strette da casi giudiziari, pressati dalla politica e dall’opinione pubblica, avevano sentito il bisogno di fare una serie di concessioni inaspettate, sotto forma di dichiarazioni di emergenza climatica redatte frettolosamente o di impegni con gli investitori a conseguire lo zero netto di emissioni. La pandemia di Covid-19 e le ripercussioni economiche e politiche della guerra russo-ucraina hanno dato al capitale fossile un’occasione per riaffermarsi. Sono ormai un ricordo i giorni della desiderata transizione ecologica dal basso, liberatoria, partecipata, anticapitalista. I media sono tornati ad a occuparsi di argomenti reazionari come la migrazione, la stabilità fiscale e, tema nuovo, la militarizzazione della società europea, esterna e interna. Il linguaggio di molti esponenti dei governi europei si è riscoperto razzista, colonialista, militarista, fascista. Gran parte dell’energia politica innescata dagli scioperi per il clima del 2019 è stata assorbita e cooptata da un’agenda di “modernizzazione ecologica” favorevole ai grandi capitali, alle grandi imprese, ai player europei e mondiali dell’energia fossile e delle armi.
Si delinea così un fronte plurale con tre grandi componenti: al centro il capitalismo verde con i suoi progetti di greenwashing e geo- e iper-tecnologie che vede la stretta alleanza tra capitali verdi e fossili. Al lato sinistro i movimenti ecologisti radicali che non si sono fatti assorbire dalla chimera della transizione capitalista verde – come la maggior parte dell’ambientalismo europeo – e che sono oggetto dei dure politiche repressive come detto prima; al lato destro i movimenti e le componenti reazionarie che rigettano qualunque politica ecologica perché ritengono che sia un modo per erodere in profondità l’ordine sociale basato sulla merce favorendo minoranze di varia natura o che vedono nelle politiche ambientali un modo surrettizio di estensione del controllo sociale e culturale. I confini di queste tre tipologie sociali sono labili, a parte il capitale verde-grigio che con gli stati e le grandi imprese domina la scena.
L’assenza di un movimento ecologista radicale consente ai consigli di amministrazione delle società di combustibili fossili di mantenere il controllo sulla velocità e sull’intensità del processo di “modernizzazione ecologica” e, ove necessario, garantire che gli interessi del capitale abbiano la priorità rispetto alle esigenze delle persone e del pianeta. La repressione diventa uno strumento per proteggere l’ancora fragile egemonia sociale di questo nuovo consenso intorno alla “modernizzazione ecologica”. Non c’è da stupirsi, quindi, che la recente ondata di repressione sia rivolta principalmente a coloro che osano mettere in discussione la fattibilità di questo consenso, per esempio riguardo alla sua effettiva capacità di prevenire il riscaldamento globale catastrofico.
Tuttavia, esiste un’altra lettura, più fosca, per comprendere la recente svolta repressiva, che possiamo definire di alleanza tra il capitalismo fossile, componenti importanti degli stati e i movimenti di destra reazionari e fascisti. È possibile che il progetto di modernizzazione ecologica sia già fallito prima ancora di decollare. Anche aggiustamenti minimi al sistema economico ad alte emissioni si sono dimostrati inaccettabili per il capitale fossile, il quale con ogni probabilità manterrà il controllo sulle leve economiche e politiche nel prossimo futuro. Consideriamo il recente annuncio della Shell: cestinando il piano di limitare la propria produzione di petrolio, ha ammesso che investirà altri quaranta miliardi di dollari nell’estrazione di petrolio e gas fino al 2035.
Decisioni di questo tipo indicano che il capitale fossile non ha necessariamente bisogno della modernizzazione ecologica. Piuttosto, paventa condizioni politiche che gli consentiranno di incassare miliardi di dollari dai combustibili fossili per i decenni a venire. Basta guardare agli Stati Uniti, dove, per la gioia della lobby del fossile, diversi stati hanno approvato divieti, moratorie e altre restrizioni sullo sviluppo delle energie rinnovabili. Anche in Germania, dove la modernizzazione ecologica a trazione capitalista rimane la narrativa dominante della classe dirigente, una tempesta completamente diversa potrebbe prepararsi all’orizzonte. In recenti sondaggi, il partito fascista e negazionista climatico AfD ha ricevuto una quota di voti senza precedenti del 21% a livello nazionale. Ciò lo rende il secondo partito più forte dopo i conservatori della CDU, che negli ultimi anni hanno decisamente cambiato strategia politica. Durante le elezioni del 2021, la CDU aveva interesse a formare una coalizione con il partito dei Verdi e sottolineava il desiderio di trasformare la Germania in una “nazione industriale climaticamente neutra”. Sotto il suo nuovo segretario – l’ex manager di Blackrock e appassionato di combustibili fossili Friedrich Merz – ha ora dichiarato che i Verdi, piuttosto che i fascisti di AfD, sono il “principale avversario” del partito. Alla luce di questi capovolgimenti nel panorama politico, lo scenario di una possibile futura coalizione di estrema destra tra AfD e CDU è diventato improvvisamente tangibile. Lo stesso sta succedendo in Olanda, dove il partito degli allevatori che si batte contro le misure di conservazione della bio-diversità promosse dall’Europa e dal governo olandese sta catturando crescenti consensi. Il percorso del Farmer Citizen Movement o Boer Burger Beweging (Bbb – Movimento contadino-cittadino), favorevole agli agricoltori, è stato fulmineo, ottenendo una vittoria importante alle elezioni provinciali olandesi di marzo, che determinano la composizione del Senato. Il Movimento avrebbe raggiunto in media nelle varie province il 19% dei voti, con picchi anche del 33,5%, conquistando 15 dei 75 seggi al Senato. Il Bbb è stato in grado di cavalcare un’ondata di proteste contro le politiche ambientali del governo, approfittando del consenso del settore rurale, ma non solo.
Questa analisi solleva serie questioni strategiche. È possibile che la sinistra climatica abbia speso troppe energie per dissipare le illusioni del nuovo capitalismo verde e della modernizzazione ecologica, quando in realtà i mostri del fascismo fossile si stavano già scaldando per prendere il sopravvento? Come sottolinea il filosofo Jacob Blumenfeld autore del libro Communism for Kids, una maggiore consapevolezza della crisi climatica non si traduce necessariamente nel sostegno popolare a una risposta politica all’altezza della sfida, ma potrebbe anche fornire le basi per nuove forme di barbarie climatica: “Oggi si può accettare la verità inconfutabile del cambiamento climatico senza rinunciare al proprio amore per i combustibili fossili o all’odio per gli immigrati”, o sostenendo misure draconiane contro i rifugiati climatici, i dissidenti interni, e identificando minoranze e antagonisti in quanto capri espiatori per incendi e siccità
La repressione dei movimenti ecologisti radicali potrebbe quindi essere il precursore di una politica autoritaria che si configura come risposta dominante alla crisi climatica nel prossimo decennio. Invece di combattere il clima, tale politica si concentrerebbe sulla difesa aggressiva dei privilegi del capitale fossile e dei suoi alleati, reprimendo ogni tentativo di associare alla transizione ecologica anche importanti cambiamenti sociali quali per esempio la riduzione delle disuguaglianze, la ridistribuzione della ricchezza, la fine dell’egemonia della merce e l’affermarsi di economie comunistiche.
Antonella Cappiello