Un intero paese europeo di medie dimensioni non saprebbe riversare nel circolo quasi magico della settimana dell’arte il fuoco sacro con cui Torino coinvolge una carovana di curiosi dagli sguardi famelici giunti per celebrare l’apoteosi dell’effimero, del transitorio, della fama da vernissage.
Un sabba euforico, eccitato, incontrollato e mobile come un formicaio dove tutti sono ovunque, in un collettivo desiderio, bisogno, bruciore di popolarità fatto di mordi e fuggi ottico, in un tripudio di occasioni, opportunità, celebrità, vivacità.
Nella città più austera, sobria, rigida, algida d’Italia, che negli ultimi anni si è scoperta economicamente depressa e svuotata di ogni possibile ispirazione sul futuro, si insinua per l’art week il dionisiaco, l’eccesso, l’ebrezza spirituale e fisica che invita a divenire baccanti sfrenate, a danzare intorno alla vanità e al suoi falò di fiere, esposizioni, performance e inaugurazioni con voci di cembali, pensieri di flauto, lingue ferine e una vip card in mano come fosse un tirso per accedere in ogni dove.
Dopo qualche giorno Dioniso scompare, rientra nella sua lampada misteriosa e la città si ritrova esattamente come prima. L’energia e l’euforia non zampillano più.
Esattamente come le fontane storiche, anch’esse opere d’arte, ma accuratamente tenute fuori da ogni celebrazione, restano asciutte, desertate, indirizzate alla rovina a causa d’incuria, dove senza vergona gli hanno fatto perdere l’acqua e con essa la propria voce.