Si è conclusa la sesta edizione del Festival del Classico. Il festival, progetto della Fondazione Circolo dei lettori, presieduto da Luciano Canfora e curato da Ugo Cardinale, si è focalizzato sull’orizzonte culturale Oriente/Occidente con 27 incontri e 70 ospiti che hanno dato vita a lezioni, letture, spettacoli seguiti da un attento pubblico di oltre 3600 persone. Tra i relatori invitati a parlare abbiamo intervistato Silvia Ronchey, medievista, filologa e accademica italiana e scrittrice.
Benvenuta questo Festival del classico, dove terrà due incontri. Dalla sua biografia emerge che ha fatto un percorso scolastico a Torino, al liceo Massimo D’Azeglio. Si ricorda la città, la scuola di allora?
Ci ho lasciato il cuore a Torino. E mi considero per formazione torinese, sono arrivata a 9 anni e ho fatto il ginnasio e le medie. Tante cose ricordo del D’Azeglio. Anzitutto, ricordo l’enorme delusione di quando dal d’Azeglio di Torino sono passata al Visconti di Roma che sarebbe l’equivalente, il più antico liceo romano. Ed era proprio tutta un’altra cosa, nel senso che erano anni in cui il dibattito politico a Torino era vivo, interessante. Mentre a Roma era molto ideologizzato, un modo per non studiare. Era una continuazione di collettivi di assemblee. Ricordo Torino come luogo dove mi sono formata, perché di fatto poi dopo sono stata una sorta di autodidatta. Per esempio, io giocavo a scacchi, avrò avuto 14 anni. Dall’inizio del Ginnasio ad Azeglio e ci si vedeva molto presto, un’ora prima dell’inizio delle lezioni solo per giocare.
Per giocare a scacchi?
Cosa abbastanza strana era, era molto bello, a volte, appunto tra diverse classi, eravamo, come dire diversi appassionati. Poi ricordo professori fantastici. La professoressa Giaccardi, da cui ho imparato il greco, oltre che il latino.
E poi tanti compagni di classe che poi hanno fatto le loro strade brillantemente, che si vedeva già da allora. Insomma, c’erano tante affinità. Più una grande vita culturale, c’era la libreria Hellas e le Istituzioni perché ci una grande vivacità. Ricordo per esempio il cinema Centrale dove si vedevano i film del primissimo Woody Allen. Ma anche le conferenze al Carignano, i martedì letterari e poi un gruppo di intellettuali di tutto rispetto ad esempio Luigi Firpo o Nicola Abbagnano, che allora insegnavano all’università e tanti altri. Penso alla scoperta di Fruttero Lucentini che è avvenuta proprio in quegli anni, era veramente un centro di cultura.
Adesso torna a Torino per questo Festival dove ha due incontri dove gioca facile. Perché presenta un libro su Ipazia di cui è un’esperta, ha scritto anche un libro che ha avuto molto successo. E a seguire un dibattito sulla caduta di Bisanzio. Due temi che le appartengono, sul secondo credo che che le domande sfoceranno nell’attualità, sono quasi d’obbligo.
Sto scrivendo un libro su qualcosa che sto studiando da vent’anni, che uscirà per Rizzoli, ossia la caduta di Costantinopoli.
Come legge la Turchia di questi anni ultimi anni. La svolta che ha impresso Erdogan ?
Ovviamente la leggo malissimo, noi Bizantinisti insieme i bizantinisti turchi che tra l’altro sono coraggiosissimi, vanno veramente contro controcorrente, contro il regime. Un regime che è durissimo, i professori universitari in Turchia vanno in prigione, ci restano ed alcuni altri spariscono.
E continuano a professare le loro opinioni. La Turchia è straordinariamente coraggiosa e resistente, ma anche un luogo dove c’è un regime pessimo. Un regime che tuttavia credo che l’Europa abbia ampiamente contribuito a creare, perché quando c’è stato il dibattito proprio sulla possibile ingresso della Turchia in Europa, che già all’epoca sulla stampa ne scrivemmo in un confronto con lo storico Jacques Le Goff.
Una zona, un luogo dove c’è stata Bisanzio. Dove quindi l’Impero romano era presente. Vi è rimasto così a lungo da un punto di vista storico che quella è Europa, lo è sempre stata. E poi dal punto di vista politico, all’epoca si era ben lontani da da poter pensare a una svolta fondamentalista.
Mi sembra che sia sia diventato un argomento, come dire, chiuso per sempre, con nessuna possibilità di riaprirlo.
E’ così. A questo punto sono talmente cambiati gli equilibri, si è creata questa situazione neo-sultaniale. Che pervade non dico la cultura, ma quantomeno la cultura pop, insomma la lo spirito del tempo. Si è creata una leadership da parte dell’unico soggetto islamico fondamentalista che comunque per motivi strategici in senso stretto, può dialogare con l’Europa e fa ovviamente fa un gioco abilissimo, essendo Erdogan, un astuto politico ma è anche un autocrate, un dittatore. Che noi finanziamo lautamente, mentre avremmo potuto avere molti vantaggi finanziari, economici, da un ingresso della Turchia in Europa. Ormai sono passati quasi vent’anni, è stata un’occasione persa.
Ecco spostandoci invece su una delle degli altri temi che lei ha affrontato e ha raccontato. Ha avuto l’opportunità e la fortuna di conoscere bene James Hillman. Se dovessimo scegliere fuochi blu o il codice dell’anima?
Sono due libri che ho amato moltissimo. Io ho una passione per fuochi blu, e in particolare per il saggio sul sale. Fuochi blu è una raccolta di scritti . Non è organica, Il codice dell’anima, rappresenta quell’Hillman che, senza rinunciare alla sua profondità, alla sua brillantezza, e a tutta quella intelligenza è riuscito a parlare a tutti. Tant’è vero che è stato un bestseller. Quindi cosa devo dire? Conoscendo tutto Hillman. Forse dentro Fuochi blu si trovano quelle due chicche. Il codice dell’anima ci dà un konw how. Come dire con un piede nella nel ragionamento dell’élite, è un piede nella comunicazione con l’anima del mondo, con la psiche collettiva, utile al progetto che lui aveva di farsi terapeuta dell’umanità intera e non dei singoli.
Ecco, proprio su questo tema, visto che oltre a scrivere insegna in Università e ha opportunità di incontrare moltissimi studenti. Che idea si è fatta di quelle che sono le le mitologie dei giovani?
Purtroppo sono mitologie molto scadenti, nel senso che la situazione delle giovani generazioni è quasi disperata, è disperata dal punto di vista del diritto allo studio che secondo me praticamente non esiste più perché si forniscono per la laurea occasioni per festicciole con molti parenti, confetti, coroncine, fiori, questo forse più a Roma, magari più nel sud. Però non lo so. Insomma, sorta di riti. Di sagre familiari, come una volta poteva essere il battesimo o la prima comunione; il problema è che non c’è alcun contenuto, nel senso che il contenuto è appunto ineffabile come quello del battesimo della prima comunione. Oggi si promuovono tutti, cioè si laureano tutti. Queste sono le indicazioni che il sistema universitario italiano in questo momento da. In una situazione invece drammatica, di analfabetismo di ritorno legato a moltissimi fattori, ma, non ultimo, anche senza stare a fare la lagna solita del. dei social media, delle fake news, al di là di tutto, c’è una metamorfosi antropologica e cognitiva dell’homo sapiens del giovane homo sapiens, che rende la lettura, una cosa rara. La capacità di leggere: all’Università arriva una maggioranza di ragazzi che non sanno leggere, cioè magari si fanno scorrere davanti agli occhi delle pagine con delle scritte. Ma non riescono proprio cognitivamente a mettere in relazione ciò che è scritto con un significato, il significante.
Figuriamoci la lettura di complessi saggi quale sarebbe richiesta dall’Università. Ribadisco arrivano che non hanno letto un libro intero, cioè hanno letto dei pezzetti che gli sono stati somministrati in antologie, ma un libro intero, quindi la capacità di attenzione, di protratta, di concentrazione protratta che richiede. Le mitologie sono tutte, anzitutto, basate su un sentito dire. Va di moda, Jung, ma non l’hanno mica letto. E non è certo colpa loro. Manca anche un’oralità, perché questa presupponeva quantomeno la memoria, la conoscenza mnemonica che era quella pre-alfabetica, che era viva non solo nelle campagne ma anche nelle corti.
Dico Jung, ma poi ci sono frammenti di di buddismo. Tutto un miscuglio di spiritualità. Brandelli di fisica quantistica. Sul filone Matrix, e poi la convinzione di poter avere forze magiche, poteri che non nascano dal lavoro, dalle difficoltà. All’università sono nella commissione tirocini e quindi lo sforzo è quello di portare i ragazzi nel mondo del lavoro, subito perché altrimenti entrano in una situazione di pigrizia. Per il resto è coccolato dalle famiglie, che sono convinte che il grande salto culturale e sociale viene fatto attraverso questa vita beata che poi beata non è. Perché desta inquietudine.
Questo fa malissimo, è deprimente. Crea uno strato depressivo e secondo me suscita uno stato aggressivo, di frustrazione aggressiva che che vediamo in in certi fatti di cronaca. Poi ci sono sempre quelli che nascono imparati o quelli che nascono in famiglie privilegiate che quindi hanno cultura, ma quelli, potrebbero anche non farla l’università. Qui si parla del vero diritto allo studio. Della della vera istruzione di massa che in Italia almeno ha fallito, però non mi sembra che in altri paesi siano stiano messi meglio. La Francia, la stessa Inghilterra. Io li vedo messi malissimo perché ci vado quindi lo so.
È una stagione di stelle avverse, ma naturalmente c’è sempre l’ottimismo. Ed io lo sono ottimista, altrimenti non non insegnerei, altrimenti non scriverei libri fatti per essere letti da tutti, ma soltanto articoli accademici, non parteciperei ai Festival.
Esiste una fame di cultura, solo che non non sempre viene dispensata. È questo che io rimprovero all’università. Non c’è nessun tentativo di rendere, di permettere a noi docenti di rendere l’insegnamento non dico più simile a uno spettacolo ma insomma più accurato, magari con con meno ore che sono un fardello sempre più pesante sulle spalle degli studenti ma con una qualità maggiore. È molto difficile perché abbiamo il peso della burocrazia. Insomma, non è neanche una questione di volontà dei docenti, è una questione tragica, di sistema.
L’ultima cosa che le chiedo perché c’è un tema che ricorre in questi giorni di controversia e incomprensione con l’universo femminile. Gli ultimi vent’anni di televisione non sembra abbiano proprio aiutato a fare un salto in avanti.
Credo che l’emancipazione femminile abbia portato alle orribili vicissitudini di cui siamo testimoni, che nascono sempre in una situazione in cui la donna si emancipa, che lo faccia perché lascia il marito o perché è più brava nel lavoro o perché, sa studiare meglio, ha voti migliori. Non lo so, sono sempre donne che fanno paura, questo è il portato più violento e più spaventoso, quello dei femminicidi di cui stiamo credo parlando. Tuttavia vedo nelle giovani coppie un sistema decisamente diverso, più equilibrato e sereno.
Sono convinta che l’unica grande rivoluzione riuscita del 900 sia quella femminile. Le altre sono fallite, sono state grandi, ma sono fallite. Questa è una rivoluzione riuscita, quella femminile. Le rivoluzioni portano sempre vittime, però portano non dico ghigliottine sempre, ma comunque vittime, però poi le cose cambiano, migliorano, ne sono certa.