Quella cosa complessa e imprevedibile come il rapporto tra il cioccolato è il luogo in cui trova la propria casa, un espatriato che attraversato un oceano in “nuce” vi prende forma e cresce, legando a se elementi impensabili prima, e proprio grazie a questi si caratterizza si prepara a essere altro da se, e più di se, pur conservando i suoi elementi primi. Potremmo compararla alla storia di coloro che hanno fatto fortuna in paesi stranieri, ma che una volta partiti tornano a far monito costante ai sedentari pavidi.
Se volessimo esagerare tirando la corda dei paragoni potremmo arrischiarci a dire che lui, il nostro eroe, ci assomiglia. Come noi ha affrontato viaggi perigliosi, piccolo Magellano inconsapevole. Non poteva proprio sapere all’epoca della sua partenza dove sarebbe approdato, cosa avrebbe fatto, o peggio cosa avrebbero fatto una volta arrivato, di lui. Eppure a vederlo oggi non si può dire che non si sia fatto una posizione.
Era arrivato un po’ per caso in Spagna intorno al 1528 sulle navi di quel brigante di Herman Cortez. Sulla rotta dal Nuovo mondo Cortez aveva imbarcato sulle sue flotte qualsiasi mercanzia vendibile: cose eccentriche, tipi strani, indios dai poteri magici e quant’altro potesse reggere quei viaggi terrificanti.
Insediatosi a Madrid, aveva frequentato unicamente la casa reale, i nobili che vi si raggruppavano a far corni e cornice, si intratteneva con alti prelati della curia fedeli a Carlo V. Il buon Carlo V imperatore, forse a suo modo già europeista, vantava parentele ovunque, anche grazie all’abbondanza di principesse disseminate senza troppo criterio per la varie corti europee.
Poi. La storia mette in moto le cose, muove gli uomini verso bizzarre mete.
Lo ritroviamo così, invitato d’onore a quello che possiamo definire un matrimonio principesco. Infatti proprio di principi si trattava.
La sgraziata e tozza Caterina, figlia di Filippo II di Spagna, con sulle spalle una dote da far dimenticare qualsiasi difetto, convola con il duca Emanuele I, figlio di Emanuele Filiberto. Emanuele I, bello e pigro, sdegnava il proprio padre conosciuto come testa di ferro e impegnatissimo a fare il generale degli eserciti spagnoli.
I due, sconosciuti prima delle nozze, rimasero tali, serenamente, senza mai capirsi; rispettivamente non parlavano una sola sillaba della lingua del coniuge, mai il tentativo di imparare li toccò. Ma il matrimonio, mirabilmente, cambiò la residenza del nostro. Definitivamente.
Seguì i novelli sposi oltre i Pirenei, oltre la Francia. Quando finalmente si fermarono erano approdati nella novella capitale sabauda. A molti parse sembrare che la capitale designata fosse semplicemente scivolata un po’ più in là, da Chambery a Torino, come una casualità, un guanto buttato malamente su un tavolo; nemmeno troppa strada per una capitale.
Uno sguardo in giro, un occhio a quel profilo fitto fitto di montagne tutt’intorno a corona o cappio, e la decisione di prendere stabilmente casa era cosa fatta.
Le segrete leggi degli amori durevolissimi diedero una delle più rassicuranti prove di esistenza.
Eccoli qua, uno davanti all’altra.
Lei, allora giovanissima e beffarda, mostrava già i suoi pregi o difetti che non ha mai perso.
Sdegnosa, altera e incurante di ciò che accade intorno se, con quel sorriso di chi pensa “se non si può avere di più …”.
Pratica e spoglia di fronzoli, il ruolo di donna “capitale” lo visse come un impiccio, solo un obbligo in più, come il dovere di indossare un vestito elegante, come non potersi togliere il corsetto nemmeno dopo una giornata passata a farsi intrattenere.
Lui, toccato da fortuna e forte di umile furbizia, iniziò una corte tenace e caparbia. Da manuale.
Goccia su goccia, paziente e insidioso, cocciuto come il guscio di una ghianda, ispirato dalle visioni di qualche avo azteco, seppe tessere il ricamo accorto e ricercato di una strategia che sapeva quale era la vera e unica chiave d’accesso per giungere al cuore di Lei, individuato nella debolezza-bellezza di un peccato capitale.
La gola.
I primi cento anni passarono così, a guadarsi e apprezzarsi, senza esporsi, senza scenate, pagliacciate o piccole e grandi tragedie. Un perverso gusto per la pazienza.
Insospettabilmente Lui trovò dei complici, denominati in quella strana lingua franco-piemontese “limonadier”. Erano gli acquavitari, bottegai ambiziosi e desiderosi di ingraziarsi Madame.
Possiamo immaginare una storia senza qualche intralcio, un ostacolo, una maldicenza, un sopracciglio alzato, un dito indice che mette in guardia e minaccia.
Certo che ci fu.
Qualcuno a cui la gelosia per la felicità, l’incapacità a capire il piacere, in generale il gusto per le cose buone cui altri beneficiavano, faceva difetto e disse che questa relazione era “immonda mistura”. Nessuno si scompose. Anche perché si inserì una disputa, degna della gnosi sottile di Sant’Agostino, tutta interna ai vari ordini religiosi: era “grasso” o “magro”? Nutriva? Poteva passare attraverso il corpo senza sfiorare l’anima, ecco il tocco del demonio aereo e nefasto, o peggio la nutriva, e di quali sostanze poi. Il piacere della contesa dialettica appassionò tutti; cittadini, medici, nobili. La parte da padrone la fecero però cardinali e arcivescovi, i quaresimalisti secondi a nessuno, vollero compilare trattati di morale ancor oggi conservati nelle biblioteche dei seminari. Al tempo Vogue e Vanity Fair erano assenti e la querelle rimase drammaticamente insoluta fino al 1843. Nemmeno i papi si sottrassero, ma da debita e infallibile distanza, approvarono in segreto e biasimarono in pubblico al contempo.
Eludere e le voci sulla propria presenza, qualche provvidenziale viaggio a Parigi dove tra l’altro fu molto apprezzato, fu piuttosto utile, contribuì a calmare le acque, far passare la buriana e poter attendere tempi migliori.
E loro, puntuali come un temporale, o una stella cadente la notte di ferragosto, arrivarono.
Arrivarono eccome, con il galoppo del secolo dei lumi, sulla groppa di una rivoluzione politica e dei costumi.
Soprattutto vi giunse il più simpatico, forbito, elegante, salottiero, scostumato uomo della sua epoca. Giovanni Casanova. Tra il 1760 e il 1769, più volte venne a far visita a Lei. Le voci dicono che ella non si fece abbindolare, o così seppe far credere. In compenso loro due, colui che le amava tutte e colui che ne amava una sola divennero buoni amici. Il Casanova gli fece buon servizio, oggi si direbbe pubblicità. Mise in giro voce che la compagnia di quel cocciuto e irriducibile signore era un toccasana per coloro che erano un po’ depressi, poteva aiutare a “rimettersi in forze, ritrovar vigore, resistere alla malignità degli umori, raddolcire le fierosità troppo acri” dell’esistenza.
Anni d’oro.
Una donna istruita e nobile sicuramente interessata alle sue qualità, forse innamorata o lievemente invaghita, tal madama reale Giovanna Battista di Nemours, gli permise di avviare un fiorente commercio, grato ma già completamente intriso dell’umore del luogo ringraziò e si trovò un degno sostituto, per ritornar ad amare nell’ombra. Il prescelto fu Giò Battista Arì, a cui insegnò molto, ma non tutto, come è giusto.
Nuovi amici sopraggiunsero, Alexandre Dumas, Albert Valery, Brillant Savarin resero omaggio al nostro, con loro si intratteneva alle feste, ai balli, discutevano di arte, poesia, bellezza, dei romanzi da scrivere assolutamente e quelli da dimenticare altrettanto in fretta. Il solito consesso di uomini incantati dalle proprie idee.
E Lei.
Attendeva, divertita e cosciente che tutto quel rumoreggiare, quel dimenarsi, quel correre qua e la non era altro che un nuovo modo per svolazzarle intorno facendo finta di aver trovato argomenti più concreti e veri. Un finto trambusto di porcellane in cucina prima di una cena, una aprire e chiudere agitato di madie e cassetti.
Il piacere di fare della realtà teatro.
In segreto Lui aveva escogitato qualcosa, ebbene era necessario indirizzare l’attenzione altrove per non guastare la sorpresa. Si era messo ad architettare una specie di monumento. Affinché rimanesse, stabile e solido come un monumento equestre, a Lei piacevano, ne andava matta. Non avendo motivo di farsene erigere uno, bisognava inventarsi un simulacro di effetto eguale o addirittura superiore. Voleva che si insediasse qualcosa di tangibile tra di loro, qualcosa in cui Lei potesse imbattersi anche senza volerlo, e che tutti sapessero che l’aveva costruito in suo onore. Un Taymaal sabaudo.
Ci riuscì ?
A dire il vero, non possedette mai la dignità di una scultura equestre. Nemmeno la bellezza delle forme, niente che si stagliasse forte e indifferente bronzeo alla storia che passa. Eppure.
Una esito felice e a suo modo duraturo lo ebbe, non solo, perdura tutt’ora.
Per Lei solo e unicamente per Lei immaginò un’opera più tenace di una poesia, anche se proprio per ciò, per nulla poetica; inventò un espediente, un mezzo disponibile all’occorrenza, che all’occasione si potesse manifestare.
Acquistò una carrozza dal lusso antico, di incomparabile pregio nella fattura, nei fregi e nelle modanature, utilizzò stoffe cangianti per addobbarne l’interno; vi fu persino chi disse che le aveva fatte venire dalle Americhe. Chissà.
Ad essa legò una quadriglia di cavalli imponenti e meravigliato e gioioso girovagava regalando invidia e sguardi risentiti.
I nobili e borghesi d’allora, anche i più agiati, erano soliti possedere mezzi più modesti e con soltanto due cavalli al tiro. Unicamente il monarca sabaudo possedeva una carrozza simile e quattro cavalli per farla correre. Giuntagli la notizia di tanta ricchezza ostentata, convocò per un colloquio il nostro buon uomo, e gli impose dolcemente di mutare le sue abitudini. Solo il Re di Sardegna, di Cipro, Gerusalemme possedeva questo privilegio, e per favore non gli facesse fare una figura da . . .
Detto che ancora oggi è proverbiale.
Eccolo qui felice come un bambino allo zoo. Era riuscito nel suo intento. Aveva posizionato la sua idea equestremente al centro esatto della lingua parlata. Un semplice detto. Un modo di dire, ma lo citava. Era Lui il protagonista assoluto. E ogni qualvolta venisse ricordata quella “figura da . .” Lui sarebbe stato lì, in persona. Per Lei. A rammentarle che la pensava.
Se avesse realmente gradito, Madame non lo fece mai sapere, che diavolo, mica ci si sporge a battere le mani. Dopodiché, difficile che lo abbia ignorato. Ignorare sarebbe stato fare, come si suol dire, brutta figura.
La risaputa condiscendenza e garbatezza con cui lo trattava si spinse ben oltre la fine di quella stagione iridescente che fu il ‘700. Quando divertita e sventata gli concesse una garçonnière nelle stanze a pian terreno di Palazzo Madama nessuno si stupì. Altri colpi da maestro la attendevano. Era certa che quel diavolo sarebbe riuscito a incantarla ancora.
E lui, magistralmente, fece scivolare le sue dita scure scure fino a toccarle il cuore. Prima però si sarebbe impadronito per sempre delle sue labbra.
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