Courtesy Il Giornale dell’Architettura
Con l’assegnazione del Premio Pritzker 2024 a Riken Yamamoto si celebra un architetto che da oltre cinquant’anni dedica una profonda e costante attenzione verso la vita quotidiana in tutte le sue forme architettoniche, funzionali e sociali. Dall’abitare privato a quello pubblico, passando per università ed edifici civici, l’architettura di Yamamoto riflette la vita e le esigenze delle persone.
Geometrie semplici e modulari, apparentemente statiche, celano un dinamismo vitale che stimola nuovi modi di relazionarsi con l’ambiente costruito, in cui la comunità ha sempre visibilità.
Nato a Pechino nel 1945, ha trascorso l’infanzia in una casa con negozio costruita secondo i canoni delle machiya giapponesi; come lui stesso ricorda: “La soglia da un lato era per la famiglia, dall’altro per la comunità. Mi sono seduto nel mezzo”. Yamamoto ha rimodellato quell’esperienza che lo ha visto confrontarsi da una parte con gli spazi del privato e dall’altra del pubblico, in un consistente corpo di progetti in cui a tutte le dimensioni architettoniche e urbane è incoraggiata l’interazione tra singolo e collettività.
Dopo il conseguimento della laurea alla Nihon University (1968) e del master alla Tokyo University of the Arts (1971), nel 1973 fonda il suo studio Riken Yamamoto & Field Shop. Sin da quando era studente ricercatore, accompagnato da un maestro d’eccezione, l’architetto Hiroshi Hara, Yamamoto ha intrapreso numerosi viaggi, venendo a contatto con culture e società nel mondo che hanno arricchito la sua formazione ed esteso il suo orizzonte di valori.
Sin dalle prime pratiche progettuali, l’interesse per le relazioni tra privato e pubblico, interno ed esterno, si muove in parallelo alle riflessioni sul rapporto tra ambiente naturale e costruito, trovando una raffinata sintesi in Yamakawa Villa (1977). Nella residenza immersa nei boschi, sotto un grande tetto di legno a capanna, Yamamoto colloca delle scatole separate in cui sono incapsulati gli spazi domestici. Mentre piccole finestre dosano le viste dagli ambienti chiusi verso l’esterno, è lo spazio determinato dai vuoti tra una stanza e l’altra, a metà tra un soggiorno e una terrazza, a instaurare continuità e armonia con la natura circostante.
Dopoguerra, un nuovo modo di vivere insieme
La società cambia e la capacità di Yamamoto di adattarsi alle sue mutevoli esigenze è visibile nel suo mettere in discussione i modelli abitativi del dopoguerra del Giappone. Puntando a migliorare la qualità della vita delle persone, supera l’approccio che considera “una casa = una unità familiare”, proponendo soluzioni di maggiore inclusione e connessione tra gli abitanti. Così, rielaborando il concetto di soglia, nel primo progetto di collective housing Hotakubo (1991), Yamamoto sviluppa un nuovo modo di vivere insieme: dispone sedici complessi in calcestruzzo intorno a un cortile centrale per incentivare le relazioni tra residenti, mentre le 110 unità abitative costituiscono l’unico accesso all’area verde e la soglia di transizione tra lo spazio privato e quello semi-pubblico.
Dopo il terremoto, l’architettura per (ri)costruire legami
Con responsabilità sociale, egli prende parte all’iniziativa Home for All (2012) in seguito al maremoto del Tōhoku, con il gruppo KISYN-no-kai che include i colleghi Kengo Kuma, Toyo Ito, Kazuo Sejima e Hiroshi Naito. A completamento dell’insediamento di case temporanee in Heita, con il coinvolgimento di studenti, volontari e comunità locale, Yamamoto progetta anche un “community building”. Una struttura a forma di ombrello dal materiale in tessuto permeabile alla luce che, come suggerisce la duplice traduzione, rappresentava non solo un edificio comunitario ma un punto per (ri)costruire quei legami tra persone che sostengono la società. Solidifica questo impegno con la fondazione del Local Area Republic Labo, un istituto di ricerca per un’architettura a servizio della collettività.
La costruzione delle comunità e l’accessibilità
Nella visione di Yamamoto assume “un ruolo importante nella formazione di una comunità locale” persino una caserma dei vigili del fuoco. È il caso di Hiroshima Nishi Fire Station (2000), un cubo trasparente di sette piani che favorisce il contatto diretto tra gli abitanti e la caserma. Una scelta audace amplificata dalla trasparenza integrale di partizioni e pavimenti, a eccezione di alcuni box, e dall’apertura della lobby e del quarto piano al pubblico che incoraggia i cittadini a interagire con le attività quotidiane dei vigili del fuoco.
Yamamoto, dunque, nel dare visibilità alla comunità, interpreta la funzione fisica dell’edificio elevando il significato e valore che tale funzione ha per la collettività. Nella Saitama Prefectural University (1999) e nella Nagoya Zokei University of Art and Design (2022) la vocazione educativa, interdisciplinare e comunitaria è accentuata ancora una volta da volumi trasparenti e aperti. Nel primo caso studenti e personale universitario beneficiano della visibilità e interconnessione di dipartimenti e aule. Nel secondo caso, prendendo atto del flusso di persone generato dalla presenza della metropolitana nel piano interrato, Yamamoto spinge alcuni degli spazi funzionali universitari ai quattro angoli per aprire una strada che attraversa l’edificio, un’area semi-esterna che insieme ad altri ambienti della struttura è accessibile a tutti.
“Faccio però molta attenzione a ciò che mi circonda“
“Non sono bravo a progettare. Ne sono ben consapevole. Faccio però molta attenzione a ciò che mi circonda”: così scrive nella prefazione della sua omonima biografia (2013). Guidato da una forte volontà di comprendere il contesto in cui è chiamato a operare e di mettere in vista le sue dinamiche sociali, Yamamoto, per sua stessa ammissione, prima di definire spazi crea relazioni. Il suo approccio incentrato sull’inclusione e la restituzione dell’architettura alla vita quotidiana sollecita una riflessione sul ruolo sociale dell’architetto, spingendo a riconsiderare il modo in cui progettiamo l’ambiente costruito e prevediamo che le persone interagiscano con esso.
Josephine Buzzone