Gli articoli usciti su Maurizio Pollini, ma ancor più la quantità di omaggi e pensieri pubblicati da appassionati, musicisti e operatori culturali di vario tipo sui social network sono la cartina di tornasole della grandezza di una figura che solo un approccio fazioso potrebbe mettere in discussione nel suo complesso.
Pollini compendiava in sé ciò che molti vorrebbero avere: la sintesi di un istinto pianistico naturale (nel senso anche più strettamente corporeo: basta osservare la bellezza della sua mano, che sembra fatta per suonare il pianoforte) e di uno spessore culturale che gli permise di non sedersi sugli allori di quella facilità e di quel talento innato. Si tratta di un mix, quello fra natura e cultura, fra istinto e riflessione, fra potere della corporeità e consapevolezza che nell’arte c’è qualcosa che trascende la corporeità, che pone Pollini fra i colossi del pianismo di sempre.
Questa statura straordinaria di Pollini ha portato negli anni anche, un po’ come avviene nelle guerre di religione, ad agiografie o a demolizioni. È quello che è spesso avvenuto con artisti di altissimo livello, come la Callas o Michelangeli – peraltro molto diversi da Pollini.
Fra i contenuti più emblematici di questi giorni, ho letto un lungo post del pianista francese François-Frédéric Guy, intitolato “On voulait être Pollini” (Volevamo essere Pollini), “non per pretensione o per follia, ma per necessità”.
Guy spiega che la forza, l’energia vitale prometeica, il sentimento volontarista che il pianista milanese emanava nei suoi concerti erano tali da instillare nelle giovani generazioni il desiderio di mettersi alla tastiera e studiare, la voglia di sorpassarsi. Sorpassare sé stesso, più che gli altri, dovrebbe essere l’obiettivo di un artista – e questo Pollini lo comunicava in pieno, andando ben al di là della vittoria a Varsavia.
Non tutti però, forse, reagirono di fronte al Signore della tastiera nello stesso modo. Sappiamo bene che Pollini impose un canone di perfezione (emblematica l’incisione degli Studi di Chopin) quasi annichilente. Paolo Bordoni mi raccontava di aver assistito una volta a un’integrale dell’op. 10 e op. 25 in cui aveva seduto a fianco Dino Ciani: “a ogni Studio, Dino scivolava sempre più in basso nella poltrona, quasi annientato da quell’assoluto dominio”. Ciani e Pollini erano amici, e condividevano diversi aspetti, come l’amore per l’opera, la curiosità musicale e culturale insaziabile, la brillantezza intellettuale e un certo slancio che quella generazione cresciuta nel Dopoguerra poteva ancora avere. Conosciamo la triste sorte di Ciani, che suona quasi come la predestinazione di un uomo che amava il brivido e il rischio, e conosciamo anche le loro differenze come pianisti. Il canone polliniano non poteva che imporsi – e con mille ragioni – ma finì anche per creare, accanto allo slancio motivazionale evocato con emozione da Guy, una serie di nevrosi nei contemporanei e nella generazione successiva.
C’è innanzitutto il fatto che l’imitazione del modello è sempre un rischio. Quando Michelangeli pubblicò il disco delle Ballate di Brahms, all’epoca in Italia poco suonate, molti si misero a suonarle, infatuati di quell’interpretazione. Ma Michelangeli era Michelangeli (così come – per citare un altro e diverso modello generazionale – Gould era Gould). E Pollini era Pollini.
C’è poi un altro aspetto, ben evidenziato in un bellissimo post di Alexander Lonquich (e poi dicono che i social non servono a niente!): Pollini era l’incarnazione di un approccio “strutturalista” che si impose in quegli anni, granitico, ferreo nel controllo dell’andamento del tempo, tendente a dipanare i dubbi e le ambiguità per risolversi nella “massima serietà, chiarezza e limpidezza”.
Questa chiarezza era per Pollini anche una volontà di comunicare al pubblico nel modo più limpido possibile il messaggio del testo. Ma dire che quello di Pollini fosse l’unico modo possibile di avvicinarsi alla Verità del Sacro Testo sarebbe sbagliato: Pollini era Pollini anche perché interprete del proprio tempo, non strettamente come filologo (e infatti agli strumenti storici non si è mai avvicinato come esecutore). Ma attenzione, come chiarisce Lonquich: questo “strutturalismo” lasciava spazio, soprattutto nelle serate di grazia, a interpretazioni poeticissime e a momenti di assoluta tenerezza – perché con Pollini l’adesione a quel canone entrava in dialogo con una sensibilità altissima. Una dialettica interna potentissima.
Sarebbe ipocrita nascondere che Pollini abbia avuto dei detrattori, che contestarono per esempio la qualità del suo suono o certe sue rigidezze. Ma questo fa parte del bello del dibattito su un artista. Nemmeno Beethoven è sfuggito a demolizioni, figuriamoci gli altri! L’agiografia monoteista è dannosa quanto l’iconoclastia. Emersero in quegli anni altri interpreti: per esempio, il pianismo più allusivo e nostalgico-sensuale di Radu Lupu, che persino in disco sfaldava l’unità di tempo e ammorbidiva i fraseggi. Si iniziò a riflettere su altri modi di suonare e sull’esplorazione di repertori che non facevano parte del canone maggiore, per esempio quello francese da parte di Aldo Ciccolini, figura grandissima ma in quegli anni troppo relegata sullo sfondo (alla Scala, negli ultimi anni, avremmo potuto – dovuto! – ascoltare anche lui, e invece così non fu).
È proprio per questo che, secondo me, la statura di Pollini va osservata al di là del perfezionismo volontaristico. La frase che molti hanno citato in questi giorni è indicativa: «Come possiamo sapere se abbiamo compreso il senso di una musica? Dall’emozione che ci procura. È un criterio soggettivo, eppure è l’unico che funziona veramente». Ebbene sì, è una frase di Maurizio Pollini. Ed è in nome di quella emozione che io ho continuato ad ascoltarlo, fino al 2022 (all’ultimo concerto scaligero, quando ormai la débacle fisica era definitiva, nel 2023, non c’ero), e ho sentito che nelle sue interpretazioni c’erano ancora ben più che i barlumi di quell’incandescenza e quella profondità di spirito che lo contraddistinguono (fra gli ultimi ricordi più vividi, lo Schönberg dell’op. 19, la Berceuse di Chopin, ma anche l’Appassionata e momenti dell’amatissima 106). Chi, come me, continuava ad ammirarlo e a sentire che la forza espressiva era intatta (anzi, talvolta quasi più umana nel momento dello sgretolamento di quel meccanismo spaventosamente efficiente), è stato accusato di essere falso e sicofante. Costoro non si sono accorti che a essere diverso non era il giudizio, ma il punto di vista.
Con la morte del grande Pollini probabilmente si chiude un’epoca. Ma per fortuna nessuno parlerà di “ultimo dei romantici” o boiate simili. Pollini non era un artista per “lodatori del buon tempo antico” – questo certamente no. Egli lesse il romanticismo come movimento radicale ed esplosivo, ben lungi da qualsiasi melenso e stucchevole conservatorismo.
Certo, la sua fu una delle possibili letture, non la sola – e per fortuna. Riguardo alla letteratura del XX secolo, come altri protagonisti della sua epoca, fu portavoce di alcuni “dogmi ideologici” che tagliarono fuori un Novecento “altro” rispetto a quello di Darmstadt e delle avanguardie. Ma, pur con tutti i limiti di quell’impostazione, è importante ricordare che le armi con cui si combattevano quelle battaglie (col senno di poi talvolta parziali o addirittura ingiuste) erano le armi della cultura, non di un marketing becero. Si può fare d’altronde grande arte senza CREDERE che in un certo senso quell’arte cambierà il mondo.
Courtesy Luca Ciammarughi