Marina Abramović, l’icona che ha ridisegnato i confini dell’Arte Performativa
Dall’Accademia Albertina di Torino al cuore del pubblico sabaudo: un riconoscimento Honoris Causa e una riflessione profonda sull’arte e l’umanità
Marina Abramović è ampiamente riconosciuta come una delle figure più innovative e influenti nell’arte contemporanea, in particolare nella performance art. La sua originalità e il suo impatto sono stati celebrati dalla Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, che il 23 giugno, nel gremito Salone d’Onore, le ha conferito un Diploma Honoris Causa in Tecniche Performative per le arti visive della Scuola di Pittura.
La motivazione del Consiglio Accademico, nella seduta del 21 dicembre scorso, sottolinea che “Marina Abramović ha saputo dare uno straordinario e unico impulso, tra il XX e XXI secolo, al rinnovamento della gestualità comportamentale nelle tecniche performative internazionali”.
La cerimonia ha attirato una vasta gamma di pubblico, selezionato in gran parte dagli organizzatori, e composto da accademici, studenti, giornalisti e appassionati d’arte, creando un’atmosfera carica di aspettative. Durante l’evento, Abramović ha condiviso riflessioni profonde e personali, che hanno ulteriormente evidenziato le sue convinzioni e il suo impegno verso l’arte performativa.
Le performance di Abramović coinvolgono direttamente il pubblico, sfidando la tradizionale separazione tra artista e spettatore, culminando in una sinestetica fusione di percezioni e emozioni che trasforma l’osservatore in parte integrante dell’opera stessa. Un esempio iconico è “The Artist is Present”, dove Abramović ha trascorso ore seduta in silenzio, guardando negli occhi i visitatori del MoMA di New York.
Questo tipo di interazione ha creato momenti profondamente personali e intensi per i partecipanti, ma ha anche sollevato domande sull’effettiva originalità dell’idea e sulla sua ripetitività. I lavori di Marina Abramović affrontano temi universali come la vita, la morte, il dolore, la resistenza e la trasformazione; temi esplorati attraverso una lente personale e spesso autobiografica, rendendo il suo lavoro profondamente emotivo e accessibile. Negli anni ’70, l’artista serba (naturalizzata statunitense) ha iniziato a lavorare quando la performance art era ancora agli inizi. Ha contribuito significativamente alla sua evoluzione e accettazione come forma d’arte legittima.
La sua influenza è dunque innegabile, anche se alcuni critici hanno argomentato che il suo contributo è stato amplificato da un’industria dell’arte in cerca di nuove frontiere da esplorare, piuttosto che dalla pura innovazione e che l’uso continuo di questi temi possa addirittura risultare monotono. La collaborazione di Abramović con altri artisti, come Ulay, ha esplorato dinamiche di relazione e intimità. La loro serie di performance insieme ha avuto un impatto duraturo sul campo. Tuttavia, ci sono voci che suggeriscono che queste collaborazioni abbiano beneficiato più della notorietà dei singoli artisti piuttosto che delle autentiche innovazioni artistiche. Che possa piacere o meno, bisogna dar atto all’artista di aver esplorato i limiti fisici e mentali del corpo umano, spesso mettendosi in situazioni di dolore e disagio estremo. Questa esplorazione dei confini umani ha ridefinito la performance art, trasformandola in un mezzo per esaminare e sfidare la resistenza fisica e psicologica.
Durante il suo intervento all’Accademia Albertina, in un contesto che appare quasi artificioso, le parole di Marina Abramović sembravano voler trafiggere la tela delle apparenze, andando oltre la cerimonia e le etichette così distanti dall’arte stessa. Abramović ha condiviso riflessioni profonde sulla preparazione e l’essenza della performance art, argomentando su come ci si prepara a una performance: “Un mese prima non si mangia carne, non si fa sesso, e si seguono altre discipline mentali per predisporsi psicologicamente e spiritualmente”.
L’artista ha spiegato come le pratiche meditative asiatiche abbiano influenzato la sua capacità di spingere il proprio corpo e la propria mente oltre i limiti convenzionali, per poi sottolineare l’importanza della presenza mentale: “Quando un artista si pone di fronte al pubblico, se la sua mente non è presente lo spettatore lo avverte. Non si può pensare al passato o al futuro: l’unica realtà è questa, qui e ora. Questo è il punto: una concentrazione continua, durante le performance, ‘io ho bisogno di voi e voi di me’”.
Abramović ha anche discusso il ruolo della tecnologia nella società contemporanea e la sua influenza sull’arte performativa: “Se si vuole vivere la performance non si può guardare l’orologio o il cellulare ogni cinque minuti, non si possono fare selfie, bisogna fare esperienza di ciò che accade. Questo è il motivo per cui l’arte performativa ha fatto così fatica ad entrare nel circuito ufficiale dell’arte”. La performance art, secondo Abramović, richiede una presenza totale e un impegno che va oltre la mera esecuzione fisica: “Quando si fa un’azione anche fisicamente dolorosa e difficile per due ore si può ancora gestire, ma se la si deve fare per uno o tre mesi, otto ore al giorno, allora la performance non è più solo una performance ma è la vita in sé stessa: si mostra la propria vulnerabilità, l’essere esausti, si mostra sé stessi. Non si può pretendere, non si può illudere, si possono solo creare delle connessioni reali con il pubblico mostrandosi anche imperfetti, doloranti”.
L’approccio di Abramović ha sempre comportato sfide fisiche e psicologiche estreme, come nel caso già menzionato della performance di tre mesi “The Artist is Present” al MoMA. “costantemente seduta durante l’intera performance. Lui mi ha risposto che era una follia, perché le persone a New York non hanno tempo – ha narrato Marina Abramović al pubblico sabaudo – Da giovani, c’è una componente di insicurezza che ti porta ad aggiungere sempre qualcosa al lavoro, ma quell’esperienza a New York l’ho potuta realizzare solo dopo aver raggiunto una certa maturità”.
La sua dedizione alla performance ha portato a momenti di trasformazione personale, non solo per lei, ma anche per i partecipanti: “Durante la performance, vi erano un tavolo, due sedie e regole precise: nessuno poteva toccarmi o parlarmi, ma solo guardarmi negli occhi. Ho indossato tre vestiti: il primo, blu, per il karma; il secondo, rosso, per ricevere energia; e il terzo, bianco. Nell’ultimo mese, ho deciso di rimuovere il tavolo. La sedia su cui sedevo era stata appositamente disegnata senza braccioli, rendendo impossibile posare le braccia. Questo causava un dolore costante alla schiena, persino quando deglutivo, e mi terrorizzava l’idea di dover interrompere. Dopo diverse ore, non potevo più muovermi, ma avevo scelto di continuare nonostante il dolore crescente.
Pensavo di perdere coscienza, ma nel mentre, il dolore è scomparso. Ho realizzato che all’interno del corpo c’è così tanto spazio e che ci si può muovere all’interno di sé stessi anche senza muoversi fisicamente”, ha dettagliato nitidamente l’artista serba. “Il pubblico spesso piangeva di fronte a me, trovandosi costretto a confrontarsi con le proprie emozioni. Questo tipo di connessione – ha spiegato Abramović – è il cuore della performance art ed ecco che seduti di fronte a me, senza la possibilità di fare foto, di parlarmi erano costretti a guardarsi dentro, a far trasalire le proprie emozioni. Allora ho realizzato che il miracolo dell’arte è avere un amore incondizionato, aprire il cuore”.
Abramović ha infine commentato che “questa esperienza mi ha fatto capire l’importanza di aprire un Museo di Arte Performativa, per lasciare un’eredità alle nuove generazioni, affinché possano comprendere ed esperire l’arte performativa. Questo amore incondizionato si riflette ancora nella mia pratica. Viviamo in un momento molto difficile, circondati da guerre, in Ucraina, in Palestina, e ci odiamo senza via di uscita. È necessario guardare un’immagine più grande: perché dobbiamo uccidere l’umanità se noi stessi siamo l’umanità? L’umanità deve essere al centro di tutto”. Queste parole, pronunciate durante la cerimonia, non solo hanno risuonato profondamente tra i presenti, ma hanno anche sottolineato la missione di Abramović: utilizzare l’arte per costruire ponti di empatia e comprensione in un mondo sempre più frammentato.
Vi è comunque un punto controverso nella vicenda artistica di Marina Abramović: l’aspetto della resistenza e del dolore fisico ha suscitato diverse critiche. Alcuni vedono queste esibizioni come eccessivamente masochistiche, autolesionismo gratuito e speculativo, mentre altri apprezzano la profondità della vulnerabilità e dell’onestà che mostrano.
Una domanda sorge spontanea: L’autolesionismo e l’empatia sono forse l’ossimoro della performance art? Questa frase, probabilmente, mette in luce una delle contraddizioni più affascinanti e complesse della disciplina in questione. Da un lato, l’autolesionismo, che implica infliggere dolore a sé stessi, sembra in netto contrasto con l’empatia, la capacità di comprendere e condividere i sentimenti degli altri.
Tuttavia, nella performance art, questi due elementi possono coesistere e persino potenziarsi a vicenda.
Questo processo può generare un profondo senso di empatia, poiché il pubblico è costretto a confrontarsi con il dolore e la vulnerabilità dell’artista, creando una connessione emotiva potente e spesso scomoda. Pertanto, l’apparente ossimoro tra autolesionismo ed empatia diventa una dinamica complessa che sfida le convenzioni e arricchisce l’esperienza artistica. Indipendentemente dalle opinioni contrastanti, Abramović rimane una figura centrale nel panorama artistico contemporaneo.
Lara Ballurio