Dietro al bancone del bar i due si scambiano battute. Lei mi guarda e ammicca, gli occhi chiari e bellissimi segnati dalle occhiaie e il viso spruzzato da mille lentiggini. Cerca una complice e io sorrido. Lui, i capelli scuri e spettinati, non un dente dritto in bocca, sorride e scuote la testa.
Sanno già cosa ordinerò, lo sanno dal terzo giorno. Io aspetto e consumo, in piedi, la mia colazione.
Fuori, al tavolino riscaldato sotto i portici, il ragazzo autistico muove la testa avvolta nel suo solito cappello da baseball blu. Mormora qualcosa, ma lo fa piano. Si gira spesso a guardare i passanti. Fa colazione con la mamma e la zia, ogni mattina. Quando esco e mi vede pare agitarsi un po’ di più. Non so perché, ma lo fa spesso: si dondola avanti e indietro con energia.
Dietro di me il ragazzo alto e riccioluto fa un pezzo di strada nella mia stessa direzione, poi taglia il corso e va a prendere il bus. Ha un giubbotto scuro, jeans e scarpe da ginnastica e porta un anello vistoso all’anulare sinistro. Come me, anche lui prende ogni mattino le stesse cose, nel suo caso un caffè e una brioche con crema chantilly.
Le solite persone si incrociano alla solita ora. Certe volte, invece, incontri persona che non vedi ogni giorno, ma che conosci perfettamente. L’amica della tua amica, la figlia di un’altra. Persone che non c’entrano col tuo quotidiano, ma che sai che gravitano in questa zona e che potresti incontrare in ogni momento.
La ragazza dell’altro bar va a comprare i panini in panetteria nel suo grembiulino celeste col nome ricamato sopra. Ha le unghie ben curate, il trucco perfetto e un modo di sorridere tutto suo. La panettiera serve svogliata. Il cappellino bianco messo storto sui capelli castani, la madre seduta al fondo del negozio. Ha lo smalto scuro alle unghie troppo corte. E il rossetto fuori dal disegno naturale delle labbra.
La cliente dopo è piccola, magra e non più giovane. Ha sempre delle gonne vistose e uno Yorkshire al fianco. Capelli vaporosi e rughe portate con pazienza.
Più in là, la cassiera del supermercato mi dice “cara”, ma non mi conosce. Lo fa da sempre, come se passassi da qui da una vita. Invece no. Poche cose, qualche parola. Un augurio.
Fuori, una donna parla da sola, ad alta voce. Fa come se qualcuno l’ascoltasse, continua a sbraitare e si muove scomposta. Ha l’alito pesante e pochi capelli. Ma sorride e continua a parlare, ignorando il mondo che la ignora. Lungo la strada, il mendicante sembra un santone indiano troppo giovane perché sia in quello stato. Ha occhi azzurri vivaci e chiede con precisione la sua elemosina. Non una volta che chieda semplicemente degli spicci. Chiede venti centesimi un giorno, ne chiede cinquanta un altro. E fa i conti ad alta voce mentre cammina.
L’antiquario esce a prendere un caffè, poco più avanti. Lascia il negozio incustodito, tanto è per poco ed è proprio accanto al bar. La zingara con la bambina lo segue chiedendo soldi in cambio di una benedizione. Più tardi i proprietari della pizzeria le daranno un pacchetto di roba da mangiare e lei si siederà sul marciapiedi per aprirlo e svuotarlo.
Dentro la lavanderia, al fondo della stanza, una ragazza cupa sbuffa spesso e ripete la stessa frase più volte. Non è mai felice, nemmeno nei giorni migliori. Anche lei parla spesso da sola. Commenta con cattiveria notizie che arrivano solo a lei, cose che vede o che crede di vedere con la sua mente contorta. Crede che il mondo sia ingiusto con lei e alla fine, a forza di pensarlo, il mondo sarà ingiusto per forza.
La ragazza che stira ha gli occhi tristi. Si aspetta sempre una parola cattiva, o di esser chiamata pazza. Sono anni che succede ed è per questo che lei ha cambiato città raggiungendo sua sorella che fa la sarta. Nel paesino di campagna da dove arriva, nessuno capisce che chi prende il litio non è per niente pazzo e lei è stufa di piangere e di prendersela per gli sguardi e le risate soffocate dei coetanei. Certi giorni va bene. Altri giorni no, altri giorni la tristezza prende il sopravvento e lei piange tutto il tempo, mentre col ferro sistema le pieghe dei volant.
La donna zoppa che porta loro il lavoro ha tre figlie da sistemare e la mentalità antiquata. Non ha molta cultura ma è abituata a lavorare sodo. Le ha tirate su bene le sue ragazze. È arrabbiata anche lei, perché sa che la sua presenza non è indispensabile. Sa che c’è chi è più veloce, più intraprendente e giovane. Non riesce a non essere servile con i titolari, attirandosi le antipatie di tutti. Nel negozio a fianco una donna di mezza età ha ricominciato da capo troppe volte e quella più giovane sta ricominciando solo ora, mordicchiandosi le unghie.
Per strada i trolley e i carrelli fanno girare le loro ruote rumorosamente, ma a nessuno sembra importare. La gente passa, qualche altro mendicante, impiegati in pausa caffè, una risata lugubre riempie l’aria. Una giornata come tante.
Potrei essere di umore peggiore, lo ammetto. Eppure resto ferma e sorrido. Non dovrei essere qui.
So che ci sono stata ogni giorno per gli ultimi dieci anni. Ripeto lo stesso percorso, passo dopo passo, sguardo dopo sguardo.
Ora lo incontrerò. Sarà fermo all’angolo, poco prima del semaforo. Vedrò i suoi capelli corti e carichi d’oro, per un istante si volterà a guardarmi ma non mi vedrà subito. Troppo attento al cellulare, distratto dalla vita e dalla giovane età. Sono innamorata di lui, lo ero già prima.
Mi è bastato uno sguardo, un giorno. Noi a contenderci lo stesso croissant al bar, entrambi imbarazzati e divertiti allo stesso tempo. Scuse mormorate per poi tornare alla routine quotidiana. Ma da quel momento è nato qualcosa. Ne sono sempre stata sicura. Tutti mi dicevano che meritavo di più. Sono io che non ci credo. Luca mi aspettava per strada fin dai primi giorni, fingendo di essere lì per caso. Io lo mostravo alle amiche aspettando un cenno. Fino a quel giorno, quello in cui finalmente mi ha salutata e abbiamo cominciato a fare l’ultimo pezzo di strada assieme. Abbiamo impiegato pochi mesi a raccontarci di noi, dicendoci ogni cosa. Abbiamo avuto baci da togliere il fiato e qualche notte incandescente. Abbiamo avuto tempo per sapere.
E ora… ora lo incontrerò, come ogni giorno.
Come quel giorno.
Lo vedo, è esattamente dove mi aspetto che sia. Sta guardando il cellulare e alza lo sguardo senza attenzione. Non mi vede. Sono ancora lontana. Sta sorridendo. Ieri è stata una di quelle notti in cui la pelle esplode, siamo stati così bene che faticava ad andarsene. S’infila il telefono in tasca, quella laterale, e sposta lo zaino sulla spalla destra. Sa che sto arrivando, guarda l’orologio un istante e alza lo sguardo. Occhi verdi che mi puntano come un laser. Lo sento addosso.
Il cuore balza in gola e mi sento come svuotata. I polmoni schiacciati di colpo. Lo stomaco che si chiude. Ancora qualche metro. Sorrido.
Un alito di vento mi alza la gonna a fiori. Mi sento sexy. Dal suo sguardo so di esserlo. Accelero il passo, voglio toccarlo ancora. La pelle calda sotto le mani, le sue labbra che sfiorano le mie. Profumo di lavanda e di pulito.
Mi passa un braccio intorno alla vita e ci incamminiamo, ridendo. Non posso lasciarlo nemmeno un istante. Ancora vento tra le gambe, la gonna che vola. Luca ride. Sento il suo braccio addosso.
Raggiungiamo il semaforo. Davanti a noi il corso si apre col suo traffico.
Il giallo ci blocca a metà, ridiamo. Luca mi spinge appena. Scherziamo. Le auto si muovono veloci mentre lo spingo anch’io. Lo zaino lo tira indietro e rischia di cadere. Dal suo sguardo capisco che sta per vendicarsi e tento lo scarto.
Non me ne accorgo, capisco che qualcosa non va solo mentre volo, dopo l’urto. Un furgone rosso fuoco che doveva svoltare a sinistra ha incrociato la mia traiettoria. Il dolore non lo sento. Con gli occhi registro il movimento del mio corpo in alto, in avanti e poi verso terra. Mi giro in una piroetta innaturale, il vestito estivo fa da scia. Non sento alcun rumore, sono assordata dal colpo che la testa ha dato alla carrozzeria. Come un fischio ininterrotto.
Il cielo è azzurro, pochissime nuvole lo solcano mentre sto distesa sull’asfalto.
Luca. Lo vedo. Mi sta parlando ma non lo sento, mi sforzo solo di sorridergli. Sento la sua mano che mi abbassa il vestito scomposto, mi copre. Il suo viso …
L’ultima cosa che vedo.
Da dieci anni. Ogni giorno. Attimo per attimo, sempre uguale. La strada, la gente, gli ordini al bar. Immagini, ricordi. E il suo viso, quel modo di sorridere. Non posso lasciarlo un solo istante.
Non posso.
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