L’Art Week torinese è un grande “impluvium, una enorme vasca in cui si raccolgono come le piogge copiose di questi giorni, fiere, mostre, party, inaugurazioni, esposizioni di ogni tipo, dalle più blasonate alle più riprorevoli con la desinenza “issima”.

Una incontenibile offerta di cui nessuno può davvero vedere tutto, essere in ogni luogo, assorbire, percepire, capire, apprezzare, adorare e soprattutto comprare.

Un tripudio festoso e gaudente che scaraventa la città in una ruota di occasioni di fruizione artistica ineguagliabile in Italia, dove l’ottobre inoltrato trasforma ogni marciapiede in un potenziale capolavoro. Il caffè è nero Kapoor e i lunghi corsi segnano la città come tagli di Fontana.

Per i veri torinesi, che si aggirano con sguardo ormai vaccinato a ogni tipo di creatività, è il momento in cui ogni negozio di cravatte o gastronomia con una vetrina minimamente sobria può esporre un cartello che recita, senza troppa spiegazione, “arte contemporanea qui”. E funziona, come dicono i curatori: l’importante è che scuota l’animo.

La Settimana dell’Arte è quel momento glorioso in cui le gallerie, grandi e piccole, aprono le porte. Del resto, cos’è l’arte contemporanea se non una splendida caccia al tesoro in cui il tesoro è farsi venire il dubbio? C’è chi ci trova del genio, e chi invece si perde tra queste stesse opere, chiedendosi se abbia davvero senso cercare un significato. Gli unici a non aver dubbi, ovviamente, sono i curatori: esperti di concetti solidamente evanescenti, dove tutto ciò che appare non è mai solo quello che sembra.

E, in effetti, è in questa ridda di messaggi che si nasconde il vero obiettivo della settimana torinese: non scoprire il significato dell’arte, ma trovare nuove domande e costruire opportunità di business.

Tra chi sfoggia occhiali vintage, acconciature d’ordinanza e abiti che gridano “stravaganza consapevole,” si muovono anche i commentatori seriali: quella rara specie capace di spiegare qualsiasi opera – anche un’asse di legno appoggiata al muro – come “una lucida riflessione sul consumismo, ma filtrata da un’esperienza chiaramente individuale.”

Si annuiscono, sorseggiano con complicità, ed evitano sempre il termine “semplice”, un aggettivo che in questa settimana è decisamente fuori moda. Per loro, qualunque opera potrebbe diventare un bestseller di interpretazioni, salvo che non si tratti, ovviamente, di “riproduzione mainstream”. La missione? Lasciare intuire che l’autore è già molto avanti rispetto a qualunque corrente conosciuta.

Tra i progetti artistici del pubblico c’è la la chiacchiera con dondolio del bicchiere di vino; non è un semplice calice: è uno stato mentale, è l’ennesima interpretazione della propria “estetica del quotidiano”, meglio se sorseggiato nei pressi di qualche luce d’artista che continuano a vivere liberamente malgrado l’imposizione a lumino di un curatore.

Non importa se uno abbia davvero compreso l’arte – quel che conta è apparire sospeso nel “dubbio filosofico” che affiora negli occhi di chi osserva, mentre ci si versa l’ennesimo sorso con l’aria assorta di chi ha colto un’intuizione. È la rituale “messa in scena dell’interiorità” in cui l’arte non è più fuori, ma è quello che scegli di far fiorire dentro.

Come ogni grande evento che si rispetti, anche la Settimana dell’Arte a Torino si chiude con la rituale emigrazione. Tra chi si allontana più consapevole di prima e chi più confuso, si salutano installazioni ormai “vissute” – sì, perché le opere hanno ormai inglobato lo sguardo, la critica e l’interpretazione del pubblico stesso, che ne è diventato parte integrante.

In fondo, la Settimana dell’Arte torinese è questo: non un contenuto da comprendere, ma un’esperienza da attraversare – senza mai chiedersi fino in fondo dove porti.