Vale ancora la pena diventare architetto o ormai è da considerarsi un lavoro per sognatori e nuovi bohemmienne? Quali sono le tendenze dell’architettura moderna? I grattacieli che sempre più spesso vediamo nelle città italiane sono davvero l’incarnazione del male ?
Di questo e di molto altro si è parlato lunedì 24 marzo alle 18 al Circolo della Stampa, in corso Stati Uniti 27, in occasione dell’incontro con Mario Botta, architetto svizzero tra i più conosciuti al mondo. In un sala gremita di gente a tal punto che molti sono rimasti fuori in piedi, Mario Botta ha dialogato con l’architetto torinese Pietro Derossi, con l’intervento di Gianni Contetti, professore di Storia dell’arte contemporanea all’Università degli Studi di Torino e la moderazione dell’editorialista de La Stampa LuigiLa Spina.
Il dibattito, inserito nell’ambito degli incontri con importanti interpreti del sapere internazionale “La cultura nel mondo a colloquio con Torino”, è partito dai giovani. Cosa dire a un ragazzo che ha deciso di misurarsi con quello che da sempre è considerato tra i mestieri più intellettualmente affascinanti? «A parte il fatto che io non so fare altro – scherza Botta -, credo che sia importante sostenere i giovani che vogliono percorrere questo percorso. L’architetto organizza lo spazio interno ed esterno dell’uomo, è espressione della storia del proprio tempo. E’ un lavoro straordinario che, differentemente da quello che può sembrare, non risponde solo alle esigenze fisiche e funzionali, ma anche allo spirito della propria era. L’architettura è specchio della storia, talvolta anche impietoso se si pensa alle periferie».
«Ma un creativo più che ricordare e prendere in considerazione il passato, non dovrebbe essere rivolto al futuro?», subito arriva la provocazione. «Solo gli stregoni non si guardano mai indietro; il creativo in quanto tale è chiamato a confrontarsi con il passato e a metterlo in dialogo con le esigenze del presente e le aspirazioni per il futuro». «Quello di Botta, purtroppo, oggigiorno è un discorso fuori moda – interviene Derossi -, non vincente, lontano dai diktat del profitto. Il mondo dell’architettura è cambiato e in pole position vi sono delle creazioni neorealiste e neoplastiche che trasmettono poco. Il vero problema – continua – è che i progetti sono dettati dalle logiche delle multinazionali che sembrano avere la smania di replicare in tutto il globo tante piccole Dubai. Il lavoro architettonico, invece, è qualcosa di più complesso e profondo; una volta concluso è la storia del progetto che l’ha generato. Oggi questo progetto manca, non si tiene conto del contesto, della memoria del luogo d’interesse e si da origine a strutture senz’anima». «Concordo pienamente con te – aggiunge Botta -. L’architettura è un unicum e come tale si scontra con la domanda globale completamente spersonalizzata. Un progetto valido è irripetibile in un altro contesto, stabilisce rapporti spaziali con il territorio circostante: questo aspetto però viene a mancare quando il committente ha altri obiettivi e altri interessi». Forte è quindi la denuncia che arriva dal simposio di architetti al prevalere dell’aspetto economico, alla svalutazione dilagante dell’umanesimo.
Immancabile arriva poi la domanda sul grattacielo della San Paolo, nuovo e discusso protagonista dello skyline torinese. «Le “torri” che iniziano a popolare le nostre città – spiega diplomaticamente Botta – sono da comprendere. Non bisogna soffermarsi sulla tecnologia, che in quanto tale risulta sterile, ma capire se il progetto è parte del contesto, si relazione con esso: è il territorio, infatti, a condizionare l’architettura».
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