A Meana di Susa zio Tony aveva una casa.
Da bambini ci sembrava  che non si arrivasse mai. Si partiva il sabato mattina dopo scuola, le mamme preparavano le borse con innumerevoli cambi; la mia no, lei al sabato mattina lavorava in negozio e quindi toccava a mio padre fare le valigie.
Era meticoloso. Inseriva le scarpe come se fossero pezzi di un puzzle. Nessuno in famiglia avrebbe potuto riposizionarle allo stesso modo. Io non avevo accesso a quelle borse. Me ne stavo ad osservarlo a distanza, con le gambe incrociate e il pigiama di ciniglia verde, sul divano malconcio e marrone della mia camera.
Che era anche il salotto di casa, in corso Traiano 33.
Mia cugina Sara spesso partiva insieme a noi, aveva due anni in più di me ed era bionda. Sedute una accanto all’altra, potevo sentire l’odore di camomilla sprigionarsi  dai suoi capelli lunghi e lisci.
Lei stava sempre al suo posto. E solitamente stava zitta. Io le parlavo in continuazione e di ogni cosa e invidiavo che  riuscisse a rimanere in silenzio, invidiavo che in famiglia  la soprannominassero principessa, al contrario di come chiamavano me: il terremoto.
Mio padre la passava a prendere prima di pranzo, verso le undici del mattino. Scendeva dalle scale dello stabile di corso Peschiera, con una borsa Best Company a tracolla, gli occhiali con la montatura rossa e un cerchietto a pois azzurro.
Ad un certo punto del percorso, Sara rompeva finalmente il silenzio e mi proponeva di cantare. Lo facevamo perché ci sembrava che la meta si facesse più vicina, e lo ripetevamo cantilenando le parole:
Piove, piove acqua di limone, si accende la candela e si dice buonasera…”
Quando si approssimava la casa, ce ne accorgevamo guardando fuori dal finestrino. Ad un certo punto, dopo una curva a gomito, si stava quasi a ridosso di una montagna, che pareva franare da un momento all’altro. Non aveva protezioni metalliche, erano gli anni ottanta e il mondo si guardava con incosciente ottimismo.
La ghiaia del selciato di fronte casa rumoreggiava sotto le ruote della Ritmo azzurra di mio padre, scendevamo entrambe dall’auto a calpestare i ciottoli bianchi. Pronte per giocare con i cugini più grandi, arrivati prima di noi.
Eravamo sempre in tanti a trascorrere i fine settimana in quella casa. Almeno una quindicina di bambini.
Era una costruzione strana, con svariate stanze e due piani.
Il luogo che ricordo meglio era  la veranda con enormi finestroni sui tre lati, esposta a nord, e con la controsoffittatura in legno massiccio. Era sala da pranzo, sala da gioco e, all’occorrenza, stanza da letto per  gli ultimi arrivati, qualche cugino di secondo grado di Catania, o qualche amico di famiglia che aveva deciso un’improvvisata.
Io ero la piccola di quella tribù e finivo quasi sempre nei guai. Volendo partecipare a giochi che avrebbero richiesto almeno due anni in più, l’esito era scontato.
Se si costruiva una trappola per catturare un animale selvatico, una buca ricoperta di foglie secche e rametti raccolti nel prato intorno alla casa, ero io quella che ci cascava dentro e poi mi dovevano ripigliare in tre, perché non ero in grado di arrampicarmi fuori.
Se si facevano camminate in montagna, mio padre, che era preciso, costruiva un bastone in legno e lo privava della corteccia esterna. Tutti avevamo il bastone imbiancato, ma io non riuscivo a stare al passo degli altri, e alla fine mi lasciavano indietro.
Solo mio cugino Davide restava a farmi compagnia, perché era appassionato di minerali. Si riempiva le tasche come Calandrino, e cercava di spiegarmi le differenze nella composizione dei  cristalli.
Lo stavo ad ascoltare in silenzio, senza capirci nulla, e alla fine rimanevamo ad aspettare gli altri, seduti su qualche pietrone bianco, lanciando alcuni dei “minerali”, che Davide giudicava inutili, nel Rio Scaglione.
Nella casa di Meana trascorrevamo spesso le vacanze di Natale.
Le cene erano infinite. Mia nonna Elvira friggeva migliaia di cotolette e impastava polpette per un reggimento. Aveva lenti spesse dalla montatura marrone, si tingeva i capelli di un castano miele.
Era sempre all’opera in quella cucina che ricordo angusta, dove le bistecche sfrigolavano  e le mamme dei cugini maschi si ostinavano a preparare loro tazze colme di  zabaione.
Erano mamme che  rincorrevano i figli con i piatti in mano… “Massimuccio, mangiati a carne”, “Davideee beviti lo zabbaglione”.
Me lo ricordo,  il rumore che facevamo, in quella vita di allora.
 
Silvia Scarrone

Five young friends running outdoors smiling

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