Notte. Tasso alcolico elevato. Solo, cammino lungo vicoli deserti. L’oscurità si mangia il rumore dei miei passi, la luce avara dei lampioni piove asciutta dal cielo nero e subito scivola via. Intuisco ombre ammiccanti dai contorni sfumati che spiano dal nulla, il vento freddo mi fa rabbrividire. Le mani in tasca, il bavero rialzato, accelero il passo. Non è proprio paura, quella che sento, più un senso di inquietudine ed eccitazione. Vorrei che fosse già tutto finito, vorrei già essere al sicuro dentro l’auto.
Il centro storico di Torino è uno scrigno meraviglioso, ma può essere pieno di sorprese, soprattutto se c’è chi, come me, le sta cercando alle tre di mattina di un giorno feriale. Si tratta solo di avere pazienza, e un po’ di fortuna.
Ed eccola, la mia sorpresa: improvvisamente si materializza, un’ombra solida avanza dal buio verso di me. E’ da sola, o almeno così sembra. Mi sembra quello giusto. Non mi fa paura, ce la posso fare. Gli vado incontro. (Pensavi che mi sarei messo a correre?). Adesso è di fronte a me, ben vestito, sicuro di sé. Ci guardiamo negli occhi per un istante. Mi preparo, sono pronto a scattare. Neanche vedo il suo pugno arrivare. Sento un fruscio di tessuto, come di aria smossa e il rumore secco delle nocche sulla mia mandibola, come uno schiocco. Poi arriva il dolore. L’adrenalina mi scuote, il cervello si accende, i fumi dell’alcol svaniscono. Riesco a non cadere, abbozzo una difesa. Questo non era nei programmi. Braccia alte, stringo i pugni e mi bilancio sui piedi. Gli anni di Kick boxe a qualcosa sono serviti. Forse. Respiro, soffio e lascio partire una combinazione sinistro-destro-calciolaterale. Questo dovrebbe sistemarti, bastardo. Il primo pugno colpisce il mio avversario di striscio sull’orecchio, il secondo trova l’aria. Il calcio viene parato da un gomito ma è un calcio debole, perché lui ha accorciato la distanza. Attaccato, invece di indietreggiare come si fa d’istinto, è venuto avanti. Così ha tolto forza ai miei colpi. E’ uno veloce, realizzo che sicuramente è più pratico di me nel combattere. Si mette male.
Penso a come cavarmela (scappa fuggi sparisci), ed è l’ultimo pensiero coerente. Improvvisamente le mie ginocchia cedono, tutto diventa sfocato, un colpo sordo alla nuca e una voce, come dentro una bolla, riverbera nelle mie orecchie mentre cado a terra. “Questo stronzo ha finito di rompere i coglioni!”. Poi nero, silenzio e quiete. Riprendo i sensi ed è ancora buio. Sono bocconi sui ciottoli. Pioggia bagnato freddo mal di testa. Quanto tempo sono stato svenuto? Con un gesto automatico mi guardo il polso, ma non ho l’orologio. Mi rialzo appoggiandomi al muro, ignorando la nausea. Respiro, l’aria fredda mi entra nei polmoni e mi schiarisce le idee.
Faccio l’inventario. I denti ci sono tutti, le chiavi dell’auto anche. La guancia è gonfia, ho un bozzo sulla nuca. Casa. Voglio andare a casa. Che notte di merda. Dove diavolo ho nascosto la macchina? Mi muovo rasente i muri, peggio di così non poteva andare o forse sì, rifletto con un sorriso amaro, potevano darmene ancora e poi sodomizzarmi… Il buio adesso mi fa sentire protetto, quasi invisibile. Trovo l’auto, salgo, metto la sicura. Chiudo gli occhi, mi appoggio allo schienale e faccio un respiro profondo. Subito dopo riapro la portiera e vomito. Ok stai tranquillo adesso passa, mi dico. E’ passato. Un po’ di ghiaccio e in una settimana sarò come nuovo. Dovrò trovare un modo per giustificare i lividi al lavoro. Penso: doveva andare così, dovevo incontrare due che sapevano menare.
E’ stato un tentativo, il primo, probabilmente anche l’ultimo. Io ci credevo, ero convinto di potercela fare, di tamponare la mia disperazione, di risolvere il problema dei soldi che non bastano mai, delle bollette da pagare, degli alimenti da versare. Invece no. Non ho risolto un cazzo. Non sono bravo a derubare le persone.
Roberto Di Palma
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