Lasciamo scorrere il tempo, che le lancette dell’orologio girino senza fine, senza un motivo preciso. Nessuno scopo. Quello deve continuare a scorrere, come un fiume silenzioso non in piena, quasi estivo, o forse quasi fantasma. Come le cellule malate che scorrono dentro all’organismo carcassa. Carcassa di un dolore senza fine, cesto di un dolore per cui non è valso nemmeno uno di quei milioni di minuti spesi a lottare. Inutile. Tutto inutile. Vano? Ci piace la parola vano. Ne ho scritto. Riscritto. Riempito pagine, mentre quel tempo scorreva, ma quel dolore non passava. Guardavo Kubrick in solitudine, dal fondo del mio oceano personale, circondato da quattro mura instabili. è come entrare a casa, ci si prova, ma senza le pinne. Ora non mi fido di nessuno. Il mio telefono non suona mai. Non lascio trapassare nessuno. Quando c’è dolore gli altri vedono in te solo compassione. Provano pena. Che se la tengano, la loro misera pietà, così come i loro miseri volti che assumono quella faccia. Quel volto. è un volto contro natura. Contro il destino, le sorti? A vent’anni si diventa grandi. Ci sono date in cui si diventa grandi. Date un’occhiata a quello che sono, vi sembro un bambino? Cinque degli anni che ho passato, sono almeno trenta per una persona comune. Cinque anni che sembrano trenta. Ventiquattro ore che sembravano millenni. Secoli. Piaghe, urla, ferite invisibili all’occhio dell’altro, sangue, rabbia, dolore. Urlo dolore. Pensateci. E volevo che mi lasciassero morire. Invocavano grandi N attaccate a grandi O, in nome dell’amore. Amore di una madre, amore di un padre, di un qualcuno che si sentiva come se la malattia fosse sua. Convinti di averne estirpata un po’, piantata nei loro polmoni, nel loro intestino e resa propria. Era solo mia. E loro tutti degli illusi. Illusi nel nome dell’amore. Invocavano il nome di un qualcuno invano, io invocavo solo quello del sonno forzato. Fatemi dormire. Fatelo smettere, dicevo. Salvatelo. Salvatelo. Rispondevano. Dove la sabbia era calda, il mio paradiso intatto, lasciatemi dormire. Non avevo bisogno di essere difeso, non volevo guerrieri, soldati, gladiatori. La bestia era pronta ad attaccare me, soltanto me, per quanto? La terza, la quarta, la quinta volta? Lasciatela fare, io non vi deluderò. Voi state perdendo la memoria, voi non ricordate quanto ho lottato? Perché ora non mi lasciate fare a modo mio. Solo mio. Siamo io, la bestia, e il mio dolore. Ho chiesto alla bestia una pace. Nulla. Un compromesso. Nulla. Ho lottato. Ho perso. Ho riluttato. Ho riperso. Ci ho riprovato ancora, e ancora, e ancora. State perdendo la memoria? Ho lasciato che mi sopprimesse, che si prendesse tutto di me, le mie mani, le mie dita, le mie unghie, le mie gambe, la mia schiena, le mie risate, i miei dolori, i miei giorni facili, quelli meno facili. Ha preso tutto. Mi possiede al cento per cento. Io non sono più io. Io sono l’io della bestia. Non ha lasciato nemmeno una piccola parte scoperta, ha invaso e coperto tutto. Come un manto notturno, come la sera, quando cala sulla luce del giorno. Buio. Si è presa tutto il mio buio, rendendolo sempre più nero. La carcassa è sempre più pesante, vorrei che la trasportasse lei ora.  Mi guardo attorno. Nulla. Solo immensi vuoti. Lenti. Solo vuoti lenti. Poi capisce. Il momento in cui sono cambiato, che non sono più un essere umano, ma solo un contenitore di cellule malate. Tende la mano bianca, pulita, morbida. Sembra morbida. Sempre più vicina al monitor che lancia squilli impazziti. Un gesto deciso, tre punte escono dalla parete. Intermezzo. Staccata. Ninnananna. Tutto torna all’origine. Tutto si spegne. Tutto si stacca. Va tutto bene. Dio mi perdonerà. Ci vediamo là.
 
Laura Pioli
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