Là dove smette il bosco e c’è uno zampillo brioso che sgorga dalla roccia con acqua diaccia marmata e ricca, io vivo. Ma è inutile veniate a cercarmi perché non voglio essere trovato. Sono un mago, quindi capitemi, o fidatevi, è difficile inquadrarmi sociologicamente. Comunque, se sentite dire che sono capace di rimanere immobile nel mezzo loto, meditando per giorni, non credeteci.
Quello, lì sulla sedia, è il mio cappello. Ovviamente non è un cappello normale. Vi sta la mia magia, senza non avrei più accesso alle energie. Mi piace, ha un color carta zucchero che pare fatto coi duri di menta: un amalgama di melangiature opalescenti, dalle torbe di vissuto alle celesti che sfumano un po’ arricciate. Vi racconto una cosa. Ricordate la storia degli Argonauti e del Vello d’Oro?
Bene, e sto per dire una verità poco conosciuta, la storia di Giasone e gli altri finì con la scoperta che il Vello d’Oro non era d’oro; ci sono pure dubbi fondati sul fatto che la capra cui era attaccato fosse davvero alata. Insomma, tanto fu che di botto tutti si fecero disinteressati al Vello, così che da quel momento diventa addirittura difficile ricostruire gli avvenimenti che gli occorsero ed i luoghi che lo ospitarono. Finché, questo per data certa, ero presente, rispunta fuori dal niente proprio da queste parti, sui pendii adiacenti la vecchia valle del Bisenzio. Oh…, in una balla di stracci! Davvero, sul serio, in una anonima balla di cascami di lana di pessima qualità, roba che un tempo ci riempivano i materassi. Vero è che ormai non era più, proprio, un vello, e che solo un groviglio di setole stanche n’era rimasto.
Non più  lucido a fibra lunga, sucido il giusto d’untuoso grasso caprino, vivo, fine da pettine come quando in groppa all’animale. Ma sfibrato, secco come i primi peli bianchi di una barba, e nero come le mani lerce di chi l’aveva sperso nel buio indistinto, o, a dirla come oggi, buttato via. Stolto! Deluso dall’equivoco aureo e incapace di capirne il significato, quello vero.
Il Vello, in sé, porta un messaggio: abbondanza. Abbondanza per tutti. Perché saggio è chi sa prendere, è vero, ma poi sa anche rendere. Questa la formula. Funziona sempre, anche con le donne.
Così, accadde, un giorno, che andando per campi in cerca di un’erba speciale per un rito casalingo che però non vi sto a dire, arrivai al Carbonizzo, verso Cantagallo. Nel piazzale stavano aprendo le balle per preparare la lana al processo acido, che fa delle impurità una fetida fumata bianca dalla lunga ciminiera svettante. É lì che ho visto e riconosciuto il Vello: è sbuzzato fuori di fra i ritagli di gabardine. Ormai sfinito sarebbe sparito in una vampa se non l’avessi pizzicato al volo dal nastro trasportatore, così, in un’unica soluzione. Ho deciso di farlo e l’ho fatto. Poi mi sono allontanato facendo lo gnorri, ma mi sa che mi hanno visto.
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L’ho portato alla Ninfa dei Colori, che di colore ha fatti i capelli, rossi, e la pelle, che è tenue ma pronta ad accendersi in toni d’emozione. Piccola, perfettamente tutta lì che fa mille cose sempre. Ha forme belle e braccia attive; mani che tremano dell’energia dentro quando si appassiona.
Lei ha letto dall’incunabolo del Sapere della Lana, l’originale, con il serpente che si mangia la coda in copertina, scritto a penna d’oca dal Cappellaio Matto: uno stordito da mercurio cui aggiungeva zolfo ma mai il sale. Lei conosce l’essenza prima della fibra trascendendo il tempo. Che sa discernere la via per il ritorno, rendendo l’anima all’anonimo: dal silenzio dell’oblio per tornare a forma e sostanza, consistenza di prim’ordine, degna d’osservazione. Insomma, vita nuova, no, nuova vita.
Mi parlò, la Ninfa dei Colori, usando parole arcane come igroscopicità, resilienza, elasticità, coibenza. Dell’Antica Arte del fare i tessuti senza orditoio né telaio: il feltro. Mi disse che avrebbe potuto modellare un copricapo portentoso, molto alla moda, e magico.
É così che sono mago: per esercizio, mentre lei per elezione. Concordammo che sarebbe stato un cappello caldo, adatto all’inverno in arrivo. Preparammo insieme la ricetta alchemico tintorea per quel blu che poi sarebbe stato. Non avrebbe usato soltanto il Vello, troppo esiguo ma ancora adatto a crear degli effetti, ma non avrei dovuto preoccuparmi perché mi assicurò che materiali nuovi, scelti fra gli ottimi di pregio, sarebbero stati aggiunti nella mescola di cardatura, dopo lavaggi lenti e attenti. Poi il rito. Acqua, calore, saponi da Marsiglia e olio d’oliva, lana con scaglie minuscole che piano si rialzano per intrecciarsi con altre vicine, pressione, sudore e lavoro di lena, tempo e ancora calore, endogeno persino, sorriso sulle labbra, la radio accesa a tutto volume e Lapo che le scodinzola fra i piedi in cerca di attenzioni, con un calzino a penzoloni di fra i denti. Finché tutti gli spazi divennero chiusi e, per horror vacui dove era vuoto vi era il pieno. A forma di cappello magico.
Ora, io ho sentito dire che anche da altre parti si conosce la magia che rigenera le cose e preserva l’abbondanza. Vedete voi.
 
Stefano Sanesi
 
 

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