Aida, figlia di due mondi.
A centocinquant’anni dalla prima verdiana, un’inedita raccolta di documenti esposti all’Egizio.
Il museo Egizio di Torino è una forma vivente che cambia; si trasforma come in un romanzo della Rowlings, catturando vista e respiro, immergendo l’ospite in uno stato quasi ansiogeno, depredandolo dell’orientamento e di un minimo senso di sicurezza, immergendolo nella biblioteca labirintica del Nome della rosa.
Una sezione a parte, infatti, è dedicata, al piano interrato, agli sviluppi del museo, alle sue ristrutturazioni, al cambiamento delle sale espositive, alla riassegnazione di spazi e corridoi, evolvendo, pur lasciando intatta la struttura esterna, verso un edificio di ultima generazione dal punto di vista tecnologico e sotto l’aspetto della dislocazione degli spazi.
Ciò non basta a rassicurare il visitatore. Rompendo l’incanto di un paludato museo dell’800, uno di quegli edifici che, per capirci, invogliavano a togliersi il cappello all’ingresso e a predisporsi a ché la scienza contenuta permeasse quasi per osmosi il volenteroso ospite, L’Egizio ha perso sé stesso.
La scala mobile, per carità utilissima, mal si coniuga con il candore marmoreo delle scalinate storiche; l’angustia di certi passaggi cartongessati prende in giro le volte alte sei metri e i finestroni che regalano gloriose prospettive su piazza Carignano. L’illuminazione, volutamente notturna nelle sale delle sfingi e delle statue, sembra quasi dare la sensazione di un clima che cambia, nonostante la temperatura sia controllata a ventisei gradi per ragioni di conservazione.
Forse la commistione antico – moderno, vincente in tante strutture, perde all’Egizio la sua occasione, sottomessa all’autorità dei reperti, alla serietà macabra delle mummie, alle leggende di maledizioni e sfortune, ad un complesso generale nato per rivaleggiare con lo stile di un abito scuro inglese con tanto di cilindro.
Chi ha visitato il Museo del Cairo, sa cosa s’intende. Il pregio del recupero dei seminterrati è certamente quello di aver ridato luce a casse di reperti abbandonati alle muffe, restituendoli alla vista, dopo lunga catalogazione e certosino restauro. La necessaria riassegnazione degli spazi e la conseguente riorganizzazione del percorso di visita, hanno tuttavia snaturato un contenitore che, anticipando il decorrere del tempo, lo lascia appeso ad un astrattismo fine a sé stesso, ancora meno vivibile là dove si scontra con spazi che appaiono ancora come aree di cantiere.
Al terzo piano, sede delle mostre non permanenti, si registra l’impressione di una necessità di fretta precaria, proprio in virtù del fatto che il non permanente, in quanto tale, non meriti quel minimo di attenzione dedicato alle installazioni definitive o alle stars prestate per qualche giorno da qualche Louvre o da qualche Guggenheim.
Dalle colorazioni dei pannelli, ai contrasti dell’illuminazione, alle vetrine inclinate a riflettere il visitatore sudato, sembra si affronti un percorso in qualche esposizione universitaria, là dove i nostri vecchi atenei hanno certamente più funzione didascalica che espositiva. Ed in effetti la didascalica, all’interno della mostra è ricca, completa, esaustiva, frutto di un lavoro di ricerca, collezione e studio non indifferenti.
Ma la dovizia di materiale informativo, il percorso storico che la successione di sale affronta, la raccolta di informazioni e suggestioni tra l’Egitto, Parigi, Verona, che l’ospite si trova a dover affrontare da solo, risvegliano la necessità di ripercorrere quella stessa visita sotto un’altra forma, più adeguata, accompagnata. L’impressione generale è quella di un’occasione persa. Se lo stesso materiale fosse stato trattato all’interno di una conferenza, con tanto di proiezioni di immagini, si sarebbe certamente ottenuto l’effetto divulgativo apparentemente tanto cercato rispetto all’impatto visivo dell’oggetto esposto.
Anche perché l’esposizione rischia di essere quella del pannello esplicativo, gigantesco, illuminato, in tinte tenui, non certo quella del reperto che vaga tra i disegni degli abiti di scena, la riproduzione di una parrucca, gli ottoni delle trombe, le lettere originali e gli spartiti musicali. Sono oggetti troppo giovani per richiamare quel senso di scoperta quando si spazza il velo di polvere e ragnatela trattenendo il respiro, e modestamente vecchi per essere apprezzati nel lento accumulo di magnetismo tipico dell’antico.
Le teche hanno da sempre suscitato la funzione di rispetto per ciò che contengono e qui lo ottengono per i pentagrammi originali, per i diari, le lettere, i disegni, le pagine dei giornali, ma, ancora una volta, non riescono ad ottenere l’inchino che si riserverebbe, un piano più sotto, alla statua di Hatshepsut. Il problema vero, forse, risiede in quella necessaria sinestesia che diventa naturale tra didascalia e pittura, scultura e allestimento: riesce difficile, se non impossibile, tra documento storico e nota musicale.
In ogni caso, all’interno del fine non solo celebrativo, ma didascalico e divulgativo della mostra, va reso un grazie deciso e meritato a Enrico Ferraris, curatore della mostra. La ricerca di documentazione precisa e puntuale, attinta da musei, biblioteche, conservatori, e attentamente richiamata dai pannelli esplicativi, completi e allestiti con enorme dovizia di informazioni, hanno sicuramente reso il risultato di avvicinare due mondi apparentemente distanti. Per il tramite di Aida, stanza dopo stanza, si assiste alla volontà necessaria di modernizzare un Paese dalle origini millenarie, sull’impronta di un’Europa che lo vezzeggia, lo deruba, lo ammira fino a renderlo parte di sé stessa di là del mare, in un tentativo che, fallito il contributo militare, non può che passare attraverso la cultura, l’architettura, la storia, l’arte e la musica.
La mostra parte con il tributo al successo ottenuto da Verdi all’Esposizione Universale di Parigi. I maggiori teatri francesi e parigini sono soliti mettere in scena opere di autori francesi già affermati, ma Giuseppe Verdi ottiene addirittura il consenso di Ismail Pascià, Vicerè d’Egitto, rappresentando, per l’occasione, un’opera scritta in francese: il Don Carlos. È la testimonianza di quanto certo genere di lirica sia legata al nazionalismo. Verdi stesso è così fortunato da fungere da acronimo per Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia (W VERDI!) e manterrà il proprio genere musicale all’interno di quelle che i critici più acerrimi bollano come “le marcette zumpapà”.
Il successo della rappresentazione porta Ismail a commissionare a Verdi un’opera che declami un altro grande evento internazionale che avrà capo da lì a due anni: l’inaugurazione del Canale di Suez.
Se a Parigi, in occasione dell’esposizione, l’Architetto Mariette aveva eretto il tempio di Hator nel parco, riesumando le origini egizie per riportarle fino ai Tolomei, nel 1869, Pascià vuole che sia lui a condurre i visitatori tra i nuovi quartieri del Cairo, tra statue e giardini e un nuovo teatro dove Verdi dovrà mettere in scena qualcosa di nuovo e celebrativo della modernità dell’Egitto.
Mariette scrive uni scenario che affida a Du Lock, il librettista del Don Carlos, affinché n tragga un libretto che convinca Verdi a musicare l’opera. Il titolo provvisorio che Mariette gli ha assegnato è “Aida”. Radamès è posto a condurre l’esercito contro gli Etiopi, ma ama segretamente Aida, schiava etiope della figlia del Faraone, Amneris, che ama Radamès.
La gelosia di Amneris la porta a rivelare ad Aida che Radamès è morto. Invece questi giunge poco dopo a Tebe, vittorioso, conducendo, tra gli schiavi, anche il padre di Aida, il Re d’Etiopia.
Il Faraone concede la libertà agli schiavi e la mano di Amneris a Radamès. Ma i due amanti perseverano nel loro tradimento ai rispettivi padri che li condanneranno a morte. Si ritroveranno entrambi sepolti vivi nel medesimo sepolcro.
Nel 1870 Verdi accetta di musicare l’opera ottenendo di ridisegnare un’immagine più moderna dell’Egitto, che parta dalle antichità faraoniche per approdare ad un sentimento più vicino all’architettura dei nuovi palazzi e del teatro internazionale, ammiccante all’Europa.
La fallimentare spedizione di Napoleone in Egitto, cambia, nonostante il conflitto il rapporto con la Francia. Il nuovo governatore Mohammad Alì apprezza il sentimento francese verso le antichità egizie, alimentato da Champollion e, se il francese cerca in Egitto la culla della civiltà, l’Ottomano cerca in Francia la nuova idea di Nazione.
La prima al Cairo si celebra la viglia di Natale del 1871, mentre quella che Verdi considererà la vera première, ha luogo a La Scala di Milano l’8 febbraio 1872. Da ora in poi i due teatri, in una festosa atmosfera di competizione, si contenderanno i migliori attori e cantanti, tra budget senza precedenti e nomi di spicco, imprigionando, definitivamente, Aida tra due mondi, così diversi e così vicini.
Alberto Busca