Linee sinuose ed equilibri plastici, mix di colore e materia caratterizzano l’opera di Agostino Bergamaschi, giovane e promettente artista di Milano, classe 1990, in mostra, fino all’11 giugno, nei suggestivi spazi post-industriali del Museo Ettore Fico di Torino. Si tratta di uno degli episodi di un interessante ciclo di proposte espositive che il MEF dedica alla ricerca ed alla promozione della giovane arte italiana.
In effetti per l’artista, seguito dalla Galleria Massimodeluca di Mestre e presentato per l’occasione da Marta Cereda, è la prima mostra personale in uno spazio museale.
Per il MEF Bergamaschi ha pensato ad un progetto site-specific, che potesse interagire con lo spazio espositivo, a partire dalle intercapedini e dagli architravi della struttura nel mezzanino, per approdare in caffetteria ed uscire in terrazzo, in dialogo con la città. L’architettura del museo si coniuga con le suggestioni quotidiane dell’artista in un’installazione di ampio respiro, di grande raffinatezza e sapienza espressiva, che unisce la dimensione scultorea a quella fotografica, i materiali industriali alle tecniche artigiane.
Legni intarsiati di madreperla, tubi di gomma che si trasformano in vetro, stampe fotografiche da negativo analogico: si tratta di un passato che acquista i connotati di un presente per interpretare il futuro.
Rivolgiamo ad Agostino alcune domande per meglio comprendere il processo creativo e i riferimenti estetici del suo Superpassato.
Come hai concepito le opere che presenti in mostra al MEF di Torino?
Quando ho visto per la prima volta lo spazio dove avrei dovuto esporre ho pensato immediatamente che fosse necessario produrre opere nuove e pensate appositamente per quel luogo. Innanzitutto mi è piaciuta la sua forma irregolare e queste due pareti che creavano un forte angolo, quasi un punto di fuga. La mia attenzione si è focalizzata subito su quel particolare e avevo già deciso che l’installazione, che ancora non avevo in mente, doveva prendere in considerazione questa sensazione. Un altro elemento che mi ha fatto subito pensare è stato l’architrave che passa in mezzo al soffitto.
Al contrario dell’angolo ho avuto una sensazione di qualcosa di invadente che potesse disturbare il lavoro: dovevo per forza far in modo che diventasse parte integrante dell’installazione, in qualche modo doveva essermi utile così da non rimanere un semplice elemento architettonico. Ho avuto poi anche la possibilità di usare il terrazzo, che all’inizio non sapevo avrebbero dedicato alla mia mostra. Devo dire che sul momento non sapevo cosa avrei fatto: era uno spazio molto bello, ma allo stesso tempo più difficile da gestire del mezzanino perché completamente aperto, quasi da diventare dispersivo. Anche in questo caso ho impostato il lavoro cercando di lavorare sullo spazio, non quello propriamente architettonico, ma sfruttando l’apertura sulla città e creando qualcosa che quasi si mimetizzasse, che non balzasse immediatamente all’occhio.
Qual è il processo costitutivo delle tue opere?
Le mie opere nascono sempre da pensieri ancora irrisolti, o meglio ancora in sviluppo. Tra le opere esiste un filo conduttore che le unisce, pur essendo, in quanto a forma, l’una diversa dall’altra, continuano lo stesso discorso e approfondiscono di volta in volta quello che era rimasto in sospeso precedentemente. Possono essere costituite da una frase letta in un libro che mi colpisce particolarmente, come da un’immagine o un’esperienza che ricorre nella mia quotidianità. L’”immagine analogica” presentata a SUPERPASSATO ne è un esempio: lo scatto raffigura un muro cieco di Milano che io vedo tutti i giorni quando arrivo ed esco dal lavoro.
Come nasce l’idea di utilizzare materiali così diversi come il vetro, la gomma, l’acciaio, il legno, la madreperla?
Devo dire che per questa mostra mi sono divertito più del solito a sperimentare con i materiali. Avevo molte cose in mente… e partire anche dalla suggestione di un materiale ha fatto sì che mi si chiarissero prima le idee. Parto dal presupposto che la scelta dei materiali nel mio lavoro sia fondamentale per sottolinearne il concetto; credo che la materia e l’idea siano inscindibili e quindi inversamente proporzionali.
Il lavoro Intervalli visibili, per riprendere anche il discorso su come concepisco le mie opere, è in continuità tematica con l’opera precedente L’intervallo tra due galassie, un “filo” di vetro che si allunga nello spazio e conserva la memoria del gesto che lo ha fatto tendere. Pensando a questo ho deciso di rendere ancora più visibile l’idea di questo gesto e prolungare una materia rigida come il vetro con qualcosa di malleabile, la gomma, che continua la forma del vetro e si appropria dello spazio mimetizzandosi con esso, e, in quanto a colore, diventa traslucida, quasi invisibile. Questo materiale poi mi ricordava la finitura di un vetro sabbiato e devo dire che all’occhio la differenza tra i due materiali diventava quasi impercettibile e questa ambiguità mi sembrava rendesse il lavoro ancora più forte.
Completamente diverso è il lavoro contemporaneamente dove invece è un contrasto a dominare: un materiale grezzo come il ferro e un materiale vivo come il legno che si raffina fino a diventare vetro. Per questa scultura avevo bisogno di creare una trasformazione da un peso ad una leggerezza, da una geometria ad una freschezza.
SUPERPASSATO. Qual è il significato di questo titolo?
Questa espressione, SUPERPASSATO, mi è piaciuta dal primo momento che l’ho letta; mi dava l’idea di qualcosa di semplice e immediato, ma allo stesso tempo difficile e contorto, era come se in un’espressione venisse concentrata l’idea di un tempo infinito e tutt’altro che cronologico. Mi sono imbattuto in questo termine leggendo un libro di Giorgio Agamben, che riprendeva un pensiero di Overbeck, il quale definiva il passato non come un semplice passato ” […] ma un passato qualificato o un passato alla seconda potenza – Più-che-passato o Superpassato in esso non c’è nulla o quasi di passato.“ (Giorgio Agamben, Signatura rerum, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 87).
Mi è sembrato qualcosa al di fuori del tempo, ma che allo stesso modo avesse bisogno di un tempo per potersi definire, immagino la mia mostra come l’immagine di un tempo analogico, in cui passato, presente e futuro possano accadere nello stesso istante quasi senza ordine, creando un movimento continuo e nuovi punti di partenza. Il presente delle immagini, rappresentate dalle opere, si proietta in un futuro immaginato carico di passato, nella memoria di un passato carico di futuro.
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