Oggi mi cimento nella descrizione della via dedicata a monsignor Cagliero, celeberrimo cardinale, che a dire il vero non so chi sia, né da dove venga, o cosa abbia fatto durante l’arco della sua vita.
So, tuttavia, che qualsiasi luogo diventa interessante se abbiamo la pazienza di trascorrerci un po’ di tempo, senza ignorare quello che il caso ha da offrire lungo il cammino.
Mi approccio titubante. La via è in discesa perché giungo da Porta Palazzo, questo mi permette di dare un rapido sguardo alla fauna presente. Un tizio seminascosto dietro a dei cassonetti trova di buon gusto espletare le sue funzioni alla luce del sole, un gruppo di cinque algerini ridacchia sorseggiando vino in cartone poco più in là. Borgo Dora è un rione così poetico.
Alla mia destra, lato Piazza della Repubblica, c’è un esercizio gestito da cinesi, potrei elencare le categorie merceologiche in vendita, ma non mi basterebbero quaranta cartelle. Ad ogni modo faccio per entrare, quando un verso mi gela il sangue.
Mi volto. Il gentiluomo dei cassonetti cerca di attirare la mia attenzione e sorride, sdentato.
Mi fa cenno di seguirlo in un anfratto della via. Gli sorrido anch’io, alzo una mano come per chiedergli di aspettare un secondo, nel frattempo ignoro il negozio e accelero il passo.
Via Cardinale Cagliero è lunga novantadue metri, ma sono sudato come dopo un doppio olimpico di triathlon. E sono in apnea, a quattro o cinque passi dall’arresto cardiocircolatorio. Consapevole che tutto questo non è sufficiente alla consegna, faccio come un agente segreto: cerco di camuffarmi.
Acquisto una Moretti da sessantasei al bar dei cinesi al prezzo di un euro (!) celandola dentro a un sacchetto di plastica perché fa molto bassifondi, tolgo gli occhiali da hipster e aggiungo il cappuccio del mio cappotto acquistato in una boutique del centro. Mi ripeto che posso farcela, che sono una preda troppo piccola, un po’ come un girino in una colonia di alligatori: probabilmente nemmeno riescono a vedermi. Sì, me la caverò con poco.
Al secondo guado mi accorgo della presenza di un bellissimo autosilo adibito ai dipendenti della società L.A.M.P., provvederò a scoprirne di più la prossima volta, possibilmente equipaggiato di tenuta antisommossa. Ora l’onorificenza all’ottimo Cagliero è in salita, riesco a malapena a scorgere un paio di arabi che salgono su una Mercedes nera; sgommano in uscita dal parcheggio e si dileguano – esattamente come dovrei fare io – che invece poso uno sguardo da duro, avvicino la bottiglia alle labbra e faccio un bel sorso da vero uomo, mentre tengo stretto stretto il mio preziosissimo iPhone 5 nella tasca dei pantaloni.
Sulla destra il comune ha provveduto a riqualificare le case popolari dandoci una mano di giallo Holden, probabilmente avanzato dalle aule e riciclato in modo impeccabile.
Un energumeno baffuto si preoccupa nel qual caso avessi necessità di fumo, cocaina, eccetera eccetera. La sua apprensione, se da una parte mi urta, dall’altra testimonia che mi sono calato nel personaggio da vero professionista. Avanzo molleggiandomi sulle ginocchia come un rapper americano di quelli cattivi, ringalluzzito.
Prima che raggiunga via Regina Margherita si rifà vivo il tizio di prima, il principe dei cassonetti, che a quanto pare ha portato a termine con successo l’operazione.
Questa volta trotterella verso di me, con la mano alzata. Io, che non sono curioso su ciò che ha da dirmi, e sono sicuramente più veloce di lui, inizio a correre con la birra in una mano e gli averi più preziosi nell’altra. Seminato.
Giunto a questo punto percepisco una mancanza, perché tutto sommato la mia preoccupazione fino a quel momento è stata piuttosto ingiustificata. Decido allora di dare al magnifico Cardinale – che nel frattempo ho scoperto essere stato salesiano, quindi dedito all’istruzione del prossimo – un’ultima possibilità. Questa volta sarò mascherato da sacco di banconote ambulante.
Rimetto gli occhiali e tolgo il cappuccio, prendo in una mano il cellulare e nell’altra il portafoglio, che uso a mo’ di ventaglio per rinfrescarmi dalla calura. Mi guardo riflesso nelle vetrine e penso che anche la regina Elisabetta mi ruberebbe qualcosa, conciato in questo modo.
Eppure ancora gli algerini mangiano schifezze, ridendo di qualcosa che non capisco, e si rifilano pacche sulle spalle né docili né aggressive. Un clochard cerca fra i rifiuti il suo prossimo pasto. Un vecchio vomita fra due macchine, si siede sul marciapiede e piagnucola con le mani sul volto.
Non credo d’essermi mai sentito più ignorato. Non credo d’essermi mai sentito tanto ignobile.
Proprio quando mi do per vinto e prendo la strada di casa qualcuno mi stringe un braccio da dietro. Sbatto le palpebre nervosamente. Sudo. Mi volto a guardare aggiustandomi gli occhiali sul naso.
Il tizio dei cassonetti continua a sventolare la sua mano davanti ai miei occhi, come la prima volta che l’ho visto.
– Guarda che mezz’ora fa ti è caduto questo – borbotta, sputacchiando.
Nelle mani stringe un guanto. Il mio guanto.
– G-grazie – balbetto. Quello si volta, e torna a pisciare in mezzo alla spazzatura.
Sono perplesso, stupito, e anche vagamente imbarazzato. Mi stavo dirigendo a casa, ma decido di fare dietrofront. Passerò il pomeriggio a scuola, perché lì – in qualche modo – almeno un ombrello me lo rubano sempre.
 
Matteo Goggia
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