Curiosa la vicenda storica di Palazzo Mazzonis in via San Domenico, prezioso scrigno che oggi ospita il Museo d’arte Orientale di Torino, il più importante d’Italia nel suo genere per numero di visitatori: risalente alla metà del XVI secolo, nasce come dimora torinese di due rami di una famiglia tra le più importanti dell’aristocrazia piemontese: i Solaro della Chiusa e i Solaro della Margarita. Venduto nel 1870 a Paolo Mazzonis, industriale tessile, e adibito per quasi due secoli a sede degli uffici, fu venduto alla città di Torino nel 1980 da Ottavio Mazzonis, e destinato per due decenni ad accogliere Uffici Giudiziari, sino ad ospitare i grandi processi al terrorismo e alla lotta armata.
Tra il 2004 e il 2008 il palazzo vede la sua ultima grande trasformazione d’uso, e, grazie ad una radicale trasformazione, ospita oggi circa 2200 opere distribuite in cinque distinte gallerie corrispondenti ad altrettante aree culturali: l’Asia Meridionale e il Sud est asiatico, la Cina, la Regione Himalayana, il Giappone, i Paesi Islamici. Organizzato su tre piani, più lo spazio al piano terreno per le mostre temporanee, prevede alcune soluzioni originali come l’androne carraio come zona deputata all’accoglienza del pubblico, mentre il cortile – ideale luogo di transizione tra Occidente e Oriente – è occupato da una suggestiva struttura in vetro che ospita due giardini di ispirazione giapponese.
Dal 2015, dopo Franco Ricca che lo ha fortemente voluto e condotto dalla sua apertura, lo dirige Marco Biscione; romano, già Direttore dei Musei Civici di Udine dal 2010 al 2014, tra i numerosi incarichi lo ricordiamo responsabile del Programma Itinerari culturali del Consiglio d’Europa e referente della sezione Oceania per il Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Pigorini” di Roma. Ha fatto parte di comitati scientifici per musei etnografici in Italia e all’estero, è stato inoltre Segretario Generale dell’A.I.S.E.A. (Associazione Italiana di Scienze Antropologiche) e ha al suo attivo numerose attività di ricerca con Università e organismi internazionali.
Lei è stato eletto nel 2015, e il suo mandato dura cinque anni: può fare un primo bilancio di questo periodo come direttore del MAO?
Molto positivo, anche alla luce del fatto che l’aspetto più particolare del Museo d’Arte Orientale di Torino è che nasce solo pochi anni fa, che per l’Italia è un evento piuttosto insolito: un museo d’arte che nasce da un preciso progetto e non solo come risultato di collezioni storiche, o meglio, solo in parte (alcuni esemplari erano parte delle raccolte dei Civici Musei di Torino ed erano conservati a Palazzo Madama) ed è stato accresciuto con nuove acquisizioni: ne è nato un museo completamente nuovo, ma che in pochi anni è diventato il Museo d’Arte Orientale più visitato d’Italia. Da 56.000 visitatori nel 2014 (e tenga presente che il più importante museo di arte orientale di Roma ne registra 15.000) siamo saliti a 106.000 nel 2015 a 111.700 nel 2016: una grande crescita.
Quale è la difficoltà maggiore nell’approccio al pubblico?
Non nascondo che quello delle arti orientali è un settore di nicchia, ci sono opere d’arte meravigliose ma che non parlano così facilmente al grande pubblico. È un argomento esotico, a tratti complesso ad una prima lettura, ma sta cambiando la percezione. Se un visitatore va agli Uffizi riconosce immediatamente una Natività, fa parte del suo bagaglio culturale; quando entra in un museo come questo, a meno che non sia uno specialista, le opere non gli sono familiari e ha bisogno di una mediazione, un’informazione supplementare. Quello che siamo riusciti a fare del MAO è una finestra sull’Oriente: il museo, dopo un primo anno di grande pubblicità e interesse per la sua apertura ha avuto un periodo di stasi, anche perché era un museo di soli collezioni permanenti, con poche e isolate iniziative. Al momento del mio arrivo era già stata decisa una nuova programmazione che implementasse le attività trasformando la sala al piano terra in uno spazio disponibile a mostre temporanee anche di medie – grandi dimensioni, ricollocando gli oltre 2000 esemplari nei tre piani del Palazzo Mazzonis, un edificio di per sé straordinario. Siamo dunque partiti da mostre fotografiche di altissimo livello in collaborazione con la National Geographic a mostre raffinate come quelle sui tappeti della Cina Imperiale sino, nello scorso anno, ai Beatles e all’India.
Quale è stata la risposta a quest’ultima mostra?
Il nostro pubblico più tradizionale si è un po’ stupito, ma la mostra ha attirato anche un pubblico diverso, che non era mai stato nel nostro museo, e anche i visitatori che già ci conoscevano hanno potuto verificare che il percorso espositivo era tutt’altro che banale, poiché basato sulla scoperta da parte del mondo occidentale delle religioni orientali negli anni ’60: è stato in quell’epoca che il mondo orientale è entrata a far parte della nostra cultura. Estremizzando il discorso, è anche grazie a questa fortuna critica se siamo arrivati ad avere un museo come questo. Attualmente è in corso una mostra sul teatro di figura orientale che sta avendo molto successo, così come grande successo ha avuto l’esposizione, anche se è durata solo 10 giorni per motivi conservativi, della Grande Onda di Hokusai, stampa che fa parte delle nostre collezioni permanenti di grafica.
Le comunità delle varie etnie presenti in città vengono a visitare il Museo?
Si sta sviluppando un certo interesse in questa direzione: il MAO cerca di raccontare al meglio possibile il suo patrimonio aprendosi anche nuove forme di collaborazione proprio con i rappresentanti locali delle etnie di cui vengono raccontate le vicende culturali, per esempio abbiamo intrapreso un ottimo dialogo con le comunità asiatiche presenti in città, tanto che l’anno scorso abbiamo organizzato il capodanno cinese e la danza dei leoni. Sempre la comunità degli imprenditori cinesi ha voluto finanziare l’implementazione delle luci di alcune vetrine; con il Museo Egizio e il Consolato americano abbiamo dei progetti per il coinvolgimento partecipativo dei giovani musulmani…Ci muoviamo a più livelli perché il museo faccia davvero parte del territorio e anche del tessuto sociale, ricco e complesso, che lo abita.
Pensate di aprirvi al contemporaneo?
Sul contemporaneo al momento abbiamo fatto piccole cose. Su questo punto andiamo un po’ più cauti: intanto è una questione di competenze, a Torino ci sono già istituzioni che si occupano egregiamente di contemporaneo; tuttavia non escludiamo di continuare con iniziative che si aprano anche in questa direzione. Oggi il Museo deve contribuire a 360 °alla crescita sociale e culturale di una comunità, certo una missione difficile in un momento di grandi riduzione di possibilità di spese. Il MAO riesce in buona parte ad autofinanziarsi nelle sue attività dagli introiti del biglietti dei visitatori ma ci tengo a sottolineare che il Museo non è solo “biglietti”, non è solo “numero dei visitatori”, anche se questo dà la misura della qualità di un servizio che il museo svolge per la collettività tutta.
Cosa si può ancora fare per far penetrare più nel territorio la valenza di questo museo?
La nostra programmazione è molto ricca, quello che potremmo implementare di più è la comunicazione, che tuttavia è piuttosto costosa: noi facciamo molte cose ma non tutti le vengono a sapere, ci sono ancora delle persone che vengono a conoscenza del museo per caso. Il MAO può diventare un punto di riferimento per tutto il Nord Italia, non solo per Torino. Il passo da fare è attrarre un serbatoio di pubblico numeroso, attento, proveniente anche da altre regioni. La mostra sui tappeti orientali, che era di una qualità altissima, poteva attrarre un pubblico molto più vasto. Vogliamo accrescere la comunicazione, sfruttando le potenzialità del web in modo molto mirato.
Anticipazioni per quest’anno?
Il Museo ospiterà dal mese di maggio Dall’antica alla nuova Via della Seta, mostra che è attualmente alle Scuderie del Quirinale e che illustra la storia millenaria dei rapporti tra la Cina e l’Occidente, in particolare l’Italia. Il progetto espositivo, a cura da Louis Godart, Consulente del Presidente della Repubblica in materia di iniziative ed eventi culturali ed espositivi, si articolerà in diverse sezioni che espongono ottanta capolavori antichi provenienti dalle più importanti istituzioni museali europee e italiane tra cui il British Museum, il Musée du Louvre, il Musée Cernuschi e Guimet di Parigi, il Museo di Berlino, il Museo di Lione, il Museo del Bargello di Firenze, i Musei Vaticani. Saranno presenti anche una ventina di opere moderne provenienti dalla Cina e realizzate da grandi artisti cinesi contemporanei.
Cosa le piacerebbe che rimanesse al visitatore che visita il museo per la prima volta?
La sensazione della visione di un nuovo mondo e la voglia di ritornare per approfondire. Io sono antropologo, ho lavorato nei musei etnografici e ritorna sempre la stessa domanda: in che maniera posso veicolare oggetti che non sempre, pur nella loro qualità, parlano immediatamente al visitatore? L’oggetto deve suscitare quello che nella museografia inglese vengono definiti wonder and resonance, meraviglia e capacità evocativa: l’opera come meraviglia estetica serve a catalizzare nuove immagini e nuovi pensieri, è una nuova prospettiva su qualcosa di diverso e meraviglioso: capacità di coinvolgimento emotivo e stupore. Questo vorrei che rimanesse a chi viene a visitare il MAO.